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Alex Del Piero: la pallina, la saracinesca e l’addio a papà Gino


“I giorni indimenticabili nella vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri… fanno volume”. È la frase conclusiva del film “I Laureati”, pronunciata dalla voce fuoricampo di Leonardo Pieraccioni.
Ci sono momenti che, per un motivo o per un altro, rappresentano uno spartiacque all’interno della nostra esistenza.
Quando si incontra l’amore, ad esempio. Non “un amore”, eh, ma proprio l’Amore, quello di una vita intera.
La nascita di un figlio, magari. O la perdita di un genitore. Si tratta in entrambi in casi di avvenimenti che ci mettono di fronte ad una sorta di specchio interiore, ci costringono a guardarci dentro e -soprattutto- a crescere.

Il 18 febbraio 2001 non è un giorno qualsiasi nella vita di Alessandro Del Piero. Tutta quella settimana, che porta alla fatidica domenica di Bari, non è come le altre. Papà Gino è morto, e il ventiseienne Alex ripensa a quando era un bambino che giocava a calcio nel cortile davanti casa con una pallina da tennis. Quando il padre tornava dal lavoro e parcheggiava la macchina nel garage, lo sfidava a centrare con un tiro il pulsante per abbassare la saracinesca. Un’impresa non da poco, ben più difficile dello spedire un pallone di cuoio all’interno di una porta larga sette metri. Eppure, il ragazzino ci riusciva piuttosto spesso, grazie a quel destro già chirurgico e vellutato. Con certe doti ci si nasce, c’è poco da fare. Tu puoi semplicemente migliorare la tecnica, affinare la mira, rafforzare la muscolatura, ma il talento non si impara. O ce l’hai, o non ce l’hai.

Alessandro ne ha da vendere, lo ha dimostrato al mondo intero ad appena ventidue anni con quel tiro a giro – “alla Del Piero”, diremmo oggi – che ha regalato la Coppa Intercontinentale alla Juventus. Poi però è arrivata la rottura del legamento, nel ’98, e da quel momento in avanti qualcosa sembra essere cambiato: il giorno prima del suo ventiquattresimo compleanno, al 92′ di un match contro l’Udinese. Guarda tu la sorte che tiri ci riserva, quando vuole… Quando è sul punto di rientrare, firma il sospirato rinnovo contrattuale con i bianconeri, che lo porta a diventare il calciatore più pagato al mondo all’epoca. Al momento del rientro, il presidente Gianni Agnelli non nasconde i suoi dubbi: “È una grossa incognita. Oggi il suo soprannome non è più Pinturicchio, ma Godot”. L’Avvocato, come al solito, fa sfoggio di eleganza retorica, meno di quella umana.

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Alex gioca tutte le partite del campionato, ma è opaco come una perla rimasta troppo a lungo a prendere la polvere. In molti si interrogano su quale sarà il futuro del più grande talento italiano dell’epoca insieme a Totti. Agli Europei, nella finale contro la Francia persa al golden goal, si mangia almeno due gol che ventiquattro mesi prima avrebbe realizzato anche bendato. Le critiche piovono da ogni parte, qualcuno insinua che non sia più da Juve. E i bianconeri sono i primi ad avere dubbi nei confronti del fu Pinturicchio, quindi comprano David Trezeguet.

Nella stagione 2000-2001 la Vecchia Signora, abituata ad essere inseguita dalle rivali, si trova a dover inseguire la Roma di Totti e Batistuta. Alessandro si accomoda spesso in panchina: il tecnico Ancelotti preferisce spesso il tridente Zidane-Inzaghi-Trezeguet. A volte gli preferisce persino Kovacevic. KOVACEVIC, accidenti! Un lampione in mezzo all’area sarebbe più efficace…

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Il 18 febbraio 2001, la Juventus è inchiodata sullo 0-0 al San Nicola di Bari contro l’ultima in classifica. Gillet sta parando tutto il parabile e anche qualcosa di più. Alex siede in panca, gli occhi che sembrano persi nel vuoto. Pensa a papà Gino che non c’è più e si interroga su come andranno le cose ora che la sua vita è inevitabilmente cambiata. Dopo un’ora, Ancelotti lo manda in campo al posto del lampione serbo. Alessandro entra sul rettangolo verde deciso a colpire quel pulsante, quello che abbassa la saracinesca. Ci vuole un colpo chirurgico e vellutato. Ci vuole un colpo “alla Del Piero”, per l’appunto.

Quando mancano dieci minuti al 90′, il numero 10 prende palla sulla sinistra e punta l’area avversaria. Davanti a sé ha Neqrouz, che lo aspetta per affondare il tackle che gli strapperà il pallone dai piedi. Ma quel tackle, in realtà, non ci sarà mai. Perché Alessandro in quel momento non è Del Piero, ma solo Alex: un ragazzino di otto anni che sogna di fare il calciatore, e magari di arrivare a vincere la Coppa dei Campioni con la Juventus in una tiepida serata romana. Finta di volersi accentrare ancora, quindi supera in velocità il difensore marocchino. Si è defilato troppo, però, e quella saracinesca di Gillet esce per chiudergli lo specchio della porta.

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Ad Alex è rimasto una sola possibilità: mettere il pallone al centro e sperare che Inzaghi – come al solito – lo colpisca con una parte qualsiasi del suo corpo e la spedisca dentro. Eppure… quel pulsante è lì. Piccolo e apparentemente irraggiungibile. Dietro la porta, Gino sorride e aspetta che suo figlio compia la magia.

Gillet gli è ormai addosso, ma Alex scava la pallina da tennis con un tocco sotto di sinistro che ha il sapore dell’infanzia, dei sogni ancora realizzabili, del cono gelato, dei pomeriggi d’autunno passati a giocare a pallone sotto casa fino a quando mamma Bruna non ti invita a tornare dentro. La pallina si alza e si alza e quando decide di riscendere è già dentro la porta e poco importa se quel pulsante non c’è più, poco importa se si tratta di un pallone di cuoio, poco importa se la saracinesca non scende. Papà sorride e ad Alex solo questo interessa. Esulta prima con rabbia, poi scoppia in lacrime tra le braccia di Pessotto.

È tornato ad essere Alessandro Del Piero, il numero 10 della Juventus, il trascinatore, il leader che non alza mai la voce, il calciatore che stupisce perché quando apre la bocca non dice mai cazzate.
Godot? E chi è, costui? Al diavolo anche “Pinturicchio”, quel soprannome che non gli è mai andato granché a genio. Lui è Alex e basta: il bambino che giocava a colpire il pulsante della saracinesca con una pallina da tennis sotto gli occhi di papà Gino.


Lorenzo Latini

Giornalista per vocazione, scrittore per necessità dell’anima, sognatore di universi paralleli, non ha mai ceduto alla realtà. Nostalgico all’ultimo stadio, posseduto dal “Sehnsucht” Romantico, pessimista cosmico e permaloso cronico; ritiene che i Rolling Stones, la Roma e la pastasciutta siano le cose fondamentali per cui valga la pena vivere.

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