Che cosa si può fare in 15 secondi?
Non molto, è evidente. Si può bere un bicchiere d’acqua, per esempio, o indossare i calzini –se siete veloci-, o stravaccarsi sul divano e accendere la tv.
Oppure, se vi chiamate George Weah, potete mettere a segno uno dei goal più incredibili che si siano mai visti in Serie A. Una gemma di inestimabile valore, fatta di velocità, tecnica, resistenza, potenza e classe sopraffina.
Ma siccome nessuno di noi è George Weah, restiamocene stravaccati sul divano.
“Coast to coast”, viene ribattezzato quasi immediatamente. Da costa a costa, cioè, da una parte del campo all’altra. Dalla sua porta a quella avversaria, per depositare in rete un pallone che significa immortalità. Una corsa. Meglio, una fuga. Solitaria, decisa, ma allo stesso tempo elegante. Quasi che quel ragazzo nero come il carbone, nato nel continente più povero del mondo, abbia le ali ai piedi.
È un volo, quello che George Tawlon Manneh Oppong Ousman Weah da Monrovia, Liberia, compie per entrare nella leggenda.
Anche se, a ben pensarci, lui nella leggenda già c’è, quell’ 8 settembre 1996. Pochi mesi prima, infatti, è stato il primo – e, ad oggi, l’unico – giocatore africano a vincere il Pallone d’Oro. E inevitabilmente i giornali e le riviste si sono sbizzarriti: dalla baraccopoli di Clara Town al tetto del mondo calcistico. Per dimostrare che anche in quel continente devastato dai bianchi, sanno giocare a calcio. Lo ha dimostrato il Camerun ai Mondiali del 1990, lo ha dimostrato giusto qualche settimana prima la Nigeria che ha conquistato la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Atlanta. “Il calcio non è solo per gli europei e i sudamericani”: è il messaggio che sembra provenire, in quegli anni, da quei luoghi troppo spesso dimenticati. George lo sa bene, anche se ha dovuto soffrire per arrivare dove si trova. Ha lavorato come centralinista alla Liberia Telecommunications Corporation, ora gioca nel Milan campione d’Italia in carica. In mezzo, i successi con il Paris Saint-Germain.
È la prima giornata di campionato e a San Siro fa caldo. Il Milan, appena passato sotto la guida dell’uruguagio Oscar Tabarez dopo l’addio di Capello, sta vincendo 2-1 contro l’Hellas Verona neopromosso. I rossoneri hanno sofferto più del previsto, trovandosi addirittura in svantaggio a fine primo tempo. Dopo l’intervallo, una doppietta di Simone ha rimesso in carreggiata un Diavolo piuttosto spento, che ora soffre gli assalti dei generosi veneti. C’è un corner per gli ospiti e tutto il Milan torna a difendere nella propria metà campo. Anche George, ovviamente, che si posiziona sul lato destro dell’area.
Il calcio d’angolo è lungo, attraversa l’area di rigore dei rossoneri e finisce sui piedi di Weah. Che lo addomestica con un tocco di esterno destro vellutato, un cosiddetto “stop a seguire” che gli permette di preparare la galoppata. Il Verona è sbilanciato in avanti, quindi George si trova di fronte una prateria.
E parte.
All’inizio è una fuga, perché comincia come una gazzella che ha un leone alle calcagna, come una lepre che cerca di seminare un cacciatore. Mentre si accentra e punta verso il centrocampo, il pallone gli rimbalza malamente tra i piedi, forse a causa di una zolla malmessa. Lui in qualche modo lo controlla, però rallenta. È allora che decidono di aggredirlo Fattori e Colucci, il primo da davanti, il secondo da dietro. Fattori entra in scivolata, ma il tackle, invece che su Weah, è sul compagno di squadra. Com’è possibile? Dov’è finito quel diavolo con il numero 9? Dove accidenti è? Come ha fatto a passare?
Li ha saltati di netto, e con una piroetta su se stesso ha ritrovato il controllo del pallone. Colucci prova ad afferrarlo per la maglietta, da dietro. Nelle immagini impietose si vede per un istante, questo povero disgraziato di un centrocampista che cerca di agguantarlo per buttarlo giù, ritrovandosi invece a stringere l’aria.
È a quel punto che la fuga di George si tramuta in caccia. Perché, superato il centrocampo a lunghe falcate e seminati per strada i due poveri malcapitati, Weah, da gazzella, si tramuta in leopardo. È uno squalo che, sentito l’odore del sangue, scansa qualsiasi cosa voglia frapporsi tra sé e la meta. Sembrerebbe la carica di un rinoceronte, se non fosse così aggraziato e leggero ed elegante nella sua corsa. Carl Lewis finito per caso dentro una maglia rossonera.
E intanto San Siro si accende, il rumore sale ad ogni falcata di George, come se ognuno dei cinquantamila tifosi presenti volesse spingerlo con il suo vocìo. È un brusio che sale piano piano, un tuono di quelli che senti arrivare giù dalle montagne, sempre più forte, sempre più forte. “Lo sta facendo, non ci credo, lo sta facendo davvero!”, esclamano tutti quanti. Qualcuno ha già le mani nei capelli, perché a questo punto non è che ci voglia chissà quale mente per immaginare quale sarà l’epilogo.
C’è rimasto solo Corini, a pochi metri dall’area di rigore, ma Weah sembra passargli attraverso. Ma cos’è, uno spettro, ‘sto Corini? In realtà la palla passa da una parte e George dall’altra, e il povero numero 5 gialloblu si ritrova spettinato (ha ancora qualche capello, nel ’96) e stordito. “M’è passato accanto un InterCity con braccia e gambe!”, deve aver pensato.
Ora è rimasto solo il portiere, Gregori, e se la gazzella/leopardo decidesse di smarcare in velocità anche lui, lo farebbe senza problemi. Ma sarebbe veramente troppo, probabilmente San Siro collasserebbe su se stesso e non resterebbe che un mucchio di macerie. George entra in area. Giusto un’occhiata all’estremo difensore avversario, quindi scocca un rasoterra di interno destro che finisce nell’angolino.
Il boato non è di quelli da “gooool!”, ma da “oooooohhh!”. Non c’è solo la classica gioia che accompagna qualsiasi rete. In più c’è la meraviglia, lo stupore, la consapevolezza – una presa di coscienza immediata, istantanea – di aver appena assistito ad un prodigio. Un assolo di quindici secondi, da una costa all’altra: centro metri circa da solo, palla al piede, quasi a voler raggiungere l’orizzonte. Da preda a predatore in quindici secondi. La cavalcata di un angelo nero, nato e cresciuto in una delle zone più povere di uno dei Paesi più poveri del mondo, e approdato nel suo personale Paradiso. Per la felicità del Diavolo.
Lorenzo Latini
Giornalista per vocazione, scrittore per necessità dell’anima, sognatore di universi paralleli, non ha mai ceduto alla realtà. Nostalgico all’ultimo stadio, posseduto dal “Sehnsucht” Romantico, pessimista cosmico e permaloso cronico; ritiene che i Rolling Stones, la Roma e la pastasciutta siano le cose fondamentali per cui valga la pena vivere.