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Supersantos: Il Brutto Anatroccolo danese e il dramma di Kim Vilfort


Non importa che tu sia nato in un recinto di anatre; l’importante è essere uscito da un uovo di cigno


È quanto scriveva Hans Christian Andersen nella fiaba “Il brutto anatroccolo”, che narra le peripezie di un povero pennuto, emarginato dai suoi simili perché goffo e dalle piume grigie, che  scopre infine di essere in realtà uno splendido cigno. Ebbene, non è un caso, forse, che una delle più belle favole del calcio abbia come protagonista proprio la Nazione che dette i natali ad Andersen: la Danimarca.

uova

“La Jugoslavia non c’è più, Richard! Ci hanno ripescati! Andiamo agli Europei in Svezia!”. Questo è quanto si sente dire il Ct danese Richard Moller-Nielsen dalla sua Federazione in un pomeriggio della tarda primavera del 1992. Nei Balcani sta succedendo di tutto: Croazia e Slovenia si sono già dichiarate indipendenti, la Bosnia-Erzegovina ha appena fatto lo stesso, i serbi non la prendono tanto bene – per usare un eufemismo – e, guidati da Milosevic, hanno dato inizio ad una guerra che durerà circa quattro anni. Niente Europei dunque per la Jugoslavia, perché la Jugoslavia, di fatto, non esiste più.

La Uefa ripesca dunque la Danimarca, guidata da Moller-Nielsen. Il tecnico, a dieci giorni esatti dall’inizio del torneo, richiama dalle vacanze tutti i suoi migliori giocatori. E ce ne sono parecchi, a ben guardare: il portiere, Peter Schmeichel, gioca nel Manchester United; c’è il blocco del Brondby, squadra locale che tra la fine degli ’80 e i primi ’90 si farà notare anche in Europa; c’è Henrik Larsen del Pisa, Povlsen che gioca nel Dortmund e ovviamente i fratelli Laudrup, Brian e Michael, le due star che non hanno un bellissimo rapporto con l’allenatore. Il primo accetta di partire, il secondo declina non proprio educatamente, riattaccando il telefono in faccia a Moller-Nielsen. 

Questa improbabile Armata Brancaleone parte per la vicina Svezia pensando che le vacanze siano comunque alle porte: “giocheremo le tre partite del girone, quindi potremo andarcene in spiaggia o ad Amsterdam o a Londra per un mese”, si ripetono tra un allenamento e l’altro. Tra loro c’è Kim Vilfort, centrocampista trentenne: milita nel Brondby ed è uno dei leader della Nazionale, non solo per l’età. È un calciatore di cui, usando una frase fatta, si direbbe: “qualsiasi allenatore lo vorrebbe in squadra”. Si sacrifica in copertura, ma è sempre pronto quando la squadra riparte, corre per quattro, non sembra conoscere la parola “stanchezza”, e sa anche come trattare il pallone. Permettete l’espressione: è uno che si fa davvero il culo per la squadra

kim

Il fatto è che Kim, in quelle settimane, ha ben altro a cui pensare: a sua figlia Line, otto anni, è stata da poco diagnosticata una leucemia. Lui avrebbe anche rifiutato la convocazione, ma è stata la stessa piccola a convincerlo ad andare in Svezia. “Hanno bisogno di te, papà”. Convinto che si tratti di sole tre partite, Vilfort alla fine cede e parte con i compagni.

Nella prima gara la Danimarca conquista un discreto 0-0 contro l’Inghilterra di Platt e Lineker. Poi arriva la sconfitta per 1-0 contro la Svezia, gol di Brolin. I biancorossi stanno già preparando le valigie per tornare a casa alla vigilia dell’ultimo match del girone contro la Francia. “Insomma, guardiamo in faccia la realtà”, sembrano pensare, ognuno in cuor suo; “loro hanno Deschamps e Blanc e Papin e Cantona… quali speranze possiamo avere di passare alle semifinali?”.

Poche ore prima della gara, Kim riceve una chiamata da casa. Anzi, dall’ospedale. Le condizioni di Line si sono aggravate all’improvviso, è stata ricoverata. Vilfort lo comunica prima a John “Faxe” Jensen, il suo compagno di reparto e di stanza, quindi corre ad informare Moller-Nielsen. In fretta e furia prende il primo volo per Copenhagen e corre da sua figlia, come farebbe qualsiasi padre al mondo in un momento del genere. “Papà, cosa ci fai qui?”, chiede la bambina quando se lo trova davanti. Lui non ha neanche la forza di rispondere, tale è il magone che gli blocca la gola. Si limita ad abbracciare Line e a baciarla.

Guardano insieme la partita contro la Francia in tv, nella stanza d’ospedale, lui, Line e sua moglie. E la Danimarca, contro ogni pronostico, batte 2-1  i francesi e vola in semifinale, dove affronterà l’Olanda di van Basten, Rjikaard, Gullit e Bergkamp. “Papà, devi andare!”, gli dice Line, “hanno bisogno di te per vincere la Coppa. Io starò bene. Ma voglio che mi prometti che vincerete”. Kim glielo promette, anche se in cuor suo sa bene che sarà pressoché impossibile. Ma quando non sai quanto resta da vivere a tuo figlio, promettere qualcosa di cui non si è certi diventa quasi un’abilità.

E pensare che contro l’Olanda campione d’Europa in carica ci sono quasi: stanno vincendo 2-1 a cinque dalla fine, quando Rjikaard firma il pareggio. Nei supplementari non succede praticamente nulla. Si va ai rigori. I danesi li segnano tutti, compreso Vilfort; Schmeichel “il Gigante” lo para a van Basten. La Danimarca è in finale di Euro 1992!

Kim torna in Danimarca per una visita a Line prima della finale.
“Batterete la Germania, vero, papà?”.

Eh, una parola…! I tedeschi, da poco riunificati dopo la caduta del Muro, sono quanto di peggio il Brutto Anatroccolo danese potesse trovarsi di fronte. Brehme, Sammer, Effenberg, Kohler, Klinsmann… Sono coriacei come dei panzer, hanno tanto talento e – soprattutto – sono abituati a vincere. Insomma, sono quelli che due anni prima hanno vinto il Mondiale in Italia senza subire neanche un gol in sette partite, ma di che diavolo stiamo parlando?! È ovvio che Vilfort e soci non hanno alcuna speranza. Ma Kim annuisce all’indirizzo di sua figlia.
Perché sa che certe volte le favole diventano realtà. Non sempre, anzi: quasi mai. Ma qualche volta capita.

I primi 15’ sono di fuoco. I tedeschi hanno il totale controllo del campo e sembrano arrivare da ogni parte. I biancorossi sembrano spauriti, faticano persino a superare la metà campo. Schmeichel compie due miracoli, mentre Moller-Nielsen in panchina è tarantolato: salta in piedi, gesticola, grida all’indirizzo dei suoi. “Uscite, uscite, dannazione!”. E in una delle rare avanzate danesi, Vilfort si abbatte con un duro tackle su Brehme che crolla a terra. Quello è fallo, diciamocelo chiaro e tondo. Ma l’arbitro lascia correre, Povlsen raccoglie il pallone e lo offre a Jensen e il compagno di stanza di Kim è tutt’altro che un goleador, ma spara un bolide col destro che fulmina Illgner e regala l’estasi ai danesi.

Qui inizia l’agonia: la squadra di Moller-Nielsen si affida ad uno spudorato catenaccio e si chiude a riccio. I tedeschi ci provano in tutti i modi, Klinsmann sembra arrivare prima degli altri su ogni pallone, Hassler corre come un ossesso e Riedle non lo sposti nemmeno se gli spari con un bazooka. Ma i biancorossi non mollano: sono un pugile suonato e messo alle corde, che tuttavia non vuole crollare a tappeto e più cazzotti prende e più si fa coraggio. A mezz’ora dalla fine Klinsmann stacca di testa e il pallone è dentro, DEVE essere dentro, perché il nerazzurro ha colpito forte e preciso, indirizzando la sfera sotto la traversa. Ma Schmeichel ha un riflesso felino e la leva chissà come dall’incrocio, mentre l’attaccante tedesco, da terra, gli rivolge un’occhiata inebetita che sta a significare: “Come diavolo hai fatto? Spiegami come diavolo hai fatto a prendere quel pallone…”.

La Danimarca sembra in procinto di capitolare, è questione di minuti. Ma proprio mentre i tedeschi tentano l’ennesimo attacco, Piechnik stacca di testa a centrocampo per anticipare Doll e la traiettoria si trasforma in un assist per Vilfort, il più avanzato dei suoi. È in mezzo a Kohler e Brehme. Controlla la palla… di mento?, di guancia? Boh… Fatto sta che la controlla e, arrivato al limite dell’area, si sposta il pallone con il sinistro. Brehme finisce a brucare l’erba dello stadio di Ullevi mentre Kim calcia di sinistro, anticipando di una frazione di secondo l’arrivo in scivolata di Kohler. La palla sta andando verso la porta e mentre Illgner capisce che non la prenderà, Vilfort pensa a Line, all’ospedale, alle trasfusioni, alle flebo… e alla promessa che le ha fatto giusto qualche giorno prima. E anche se è questione di uno o due secondi, a Kim sembra un mese, un anno, anzi otto, come quelli della sua bambina che lo guarda in tv.

È un colpo da biliardo, quel tiro. Palo-gol.

cigno

L’esultanza che segue è sì quella di una squadra che si rende finalmente conto che la favola è diventata realtà, perché ormai mancano solo pochi minuti, ma è anche la gioia per un collega, un compagno… un amico che sta vivendo il momento più bello della sua vita calcistica nel momento più brutto di quella da essere umano.
Cosa si prova in momenti del genere? Cosa si pensa in momenti del genere?
Tutta la squadra si riversa su di lui, in un mucchio indistinto di rosso e bianco in cui si fa fatica a capire dove finisca quel calciatore e dove cominci quell’altro. Di chi è quella schiena? Quella è la gamba di Kim? Quella testa? È Jensen, forse? Al diavolo, chissenefrega! La Danimarca è Campione d’Europa e questa è l’unica cosa che conta!

Il destino beffardo, però, non ha ancora finito con Vilfort. Poche settimane dopo la leggendaria finale del 26 giugno ’92, Line se ne va. Al suo fianco, la madre e papà Kim. Che, in lacrime, le sussurra in un’orecchio la fiaba di un Brutto Anatroccolo di nome Danimarca che si era trasformato in Cigno. Line si spegne con un sorriso, perché il padre le sta dicendo che certe volte, non sempre, ma di tanto in tanto, le favole si avverano.
E in fondo, da che mondo è mondo, ai bambini non importa altro che questo.


Lorenzo Latini

Giornalista per vocazione, scrittore per necessità dell’anima, sognatore di universi paralleli, non ha mai ceduto alla realtà. Nostalgico all’ultimo stadio, posseduto dal “Sehnsucht” Romantico, pessimista cosmico e permaloso cronico; ritiene che i Rolling Stones, la Roma e la pastasciutta siano le cose fondamentali per cui valga la pena vivere.

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