Questa storia comincia dalla fine e nella maniera più triste. Questa storia comincia con sei colpi di arma da fuoco sparati a bruciapelo sul corpo di un ragazzo ventisettenne, nel parcheggio di un locale che si trova nel quartiere Las Palmas, a Medellìn. Questa è la storia di un Mondiale, dei cartelli del narcotraffico colombiano, di scommesse a parecchi zeri e di un autogol. Ma questa è, soprattutto, la storia di Andrés Escobar Saldarriaga.
Ora, come se fossimo in un film, torniamo all’inizio. È appena iniziata l’estate del ’94 e tutto il calcio che conta si è dato appuntamento negli Stati Uniti. E già questo, se ci pensate, suona strano: da quelle parti, il soccer – come lo chiamano loro, che considerano il football un’altra cosa – non è esattamente il massimo della popolarità, anzi. Ma gli USA sono i campioni nel fiutare un buon business, perciò si aggiudicano l’organizzazione della Coppa del Mondo e delle Olimpiadi di due anni dopo.
E nel girone con i padroni di casa capita anche la Colombia guidata dal Ct Francisco “Pacho” Maturana: ci sono grandi aspettative nei confronti dei Cafeteros, perché la generazione di calciatori venuta fuori in quegli anni è importante. C’è la chioma leonina di Carlos Valderrama, il talento e l’esplosività di Faustino Asprilla, l’eleganza rocciosa e silenziosa di Andrés Escobar. Che gioca nell’ Atletico Nacional, squadra di Medellin che pochi anni prima ha costretto lo strafavorito Milan di Sacchi ai supplementari nella Coppa Intercontinentale. I rossoneri avranno la meglio grazie ad una punizione di Evani al 120′, ma il giovane Escobar, nel ruolo di terzino destro, disputerà una splendida gara di fronte a van Basten, Massaro e Donadoni. A Milano se lo ricordano bene, quel brevilineo slanciato e dall’ottimo piede, tanto che stanno pensando di ingaggiarlo al termine del Mondiale.
L’avventura statunitense dei colombiani, però, inizia nel peggiore dei modi: sconfitta 3-1 con la Romania, con Gheorghe Hagi che ispira e segna da circa quaranta metri. Il secondo match è proprio contro gli Stati Uniti, ma il giorno prima della gara l’allenatore Maturana riceve un fax anonimo: “Se domani giocherà Gomez, le vostre case salteranno in aria”. Gabriel Gomez, fratello del vice di Maturana, è ritenuto in patria responsabile dell’inaspettata sconfitta contro i romeni. I Narcos hanno deciso e non sono il genere di persone con le quali si possa ragionare in alcun modo.
Sì, ma perché dei narcotrafficanti si interessano così tanto alla Nazionale dei Cafeteros? La questione è complessa, ma si può riassumere con una data: 2 dicembre 1993. Il re della cocaina, che guarda caso ha lo stesso cognome del difensore di cui stiamo parlando, è stato assassinato in circostanze ancora non del tutto chiare dalla polizia colombiana, con l’aiuto del governo americano e – pare – dei PEPES, un gruppo paramilitare con simpatie di destra, all’epoca vicino al cartello di Cali. Perché l’uomo in questione, grazie alla polvere bianca con la quale aveva inondato il Nordamerica, negli anni ’80 era secondo la rivista Forbes il settimo uomo più ricco al mondo. Ma il 2 dicembre del ’93, Pablo Emilio Escobar Gaviria fu ucciso. Mister “Plata o Plomo” (“Soldi o Piombo”) era il fondatore e capo supremo del cartello del narcotraffico di Medellin, un’organizzazione criminale capace di incassare, al suo apice, una cifra stimabile in 25 miliardi di dollari l’anno. Venticinque. Miliardi. L’anno.
Nel frattempo, più o meno parallelamente all’ascesa di Pablo Escobar, a Cali, la terza città più grande della Colombia, era nato un altro cartello. Con la morte del “Magico”, i narcos di Cali videro l’opportunità di avere il sopravvento, una volta per tutte, sui rivali di Medellin. È una storia che meriterebbe un libro a parte. Una storia di inaudita violenza, che conta oltre 10.000 vittime, tra le quali circa 2.000 poliziotti, 800.000 arresti e -come detto- un giro di soldi inimmaginabile. Tra la fine dei ’70 e tutti gli ’80, non esiste nazione al mondo in cui entrino più dollari. Altro che USA, altro che URSS, altro che Regno Unito. Grazie alla coca e ai traffici di Pablo Escobar, si stima che ogni giorno da Miami a Medellin viaggino quasi 70 milioni di dollari.
Settanta. Milioni. Al giorno.
Quando guadagni tanti soldi in maniera illegale, c’è un solo modo per utilizzarli senza essere beccati nell’arco di un paio di giorni: riciclarli. E i cartelli dei Narcos decidono di investire nel calcio.
Con la morte di Pablo, la guerra per il controllo della nazione si fa – se possibile – ancor più sanguinosa. La Colombia, quando arriva al Mondiale ’94, è dilaniata da una violenza e da un tasso di criminalità senza uguali. E i Narcos puntano forte sul passaggio al turno successivo della Nazionale. Gli allibratori incassano e attendono che la bomba esploda. La detonazione avviene il 22 giugno, al Rose Bowl di Pasadena, davanti a più di 90.000 persone.
Gli Stati Uniti hanno una squadra organizzata, che si difende in massa e riparte in contropiede: non c’è altro modo per affrontare i Cafeteros super-favoriti. Al 35′, un cross rasoterra di Harkes dalla sinistra sta per raggiungere Stewart: Andrés Escobar si getta in una disperata scivolata per intercettare il pallone, ma finisce per spedirlo dentro la porta. Resta a terra, il difensore, a pancia in su e con le mani sulla faccia. Sa che quello è molto più di un semplice autogol. È l’eliminazione della Colombia e lui, che è nato e cresciuto a Medellin, conosce fin troppo bene gli intrecci tra i cartelli e gli allibratori: intrecci da milioni di dollari; intrecci da migliaia di morti nell’arco di un decennio. È l’inizio della fine, per Andrés. Perché nella ripresa arriverà il raddoppio Usa con Stewart e, solo nel finale, l’inutile gol di Valencia. La Colombia è eliminata matematicamente, e tra Medellin e Cali sono andati in fumo un sacco di soldi.
Al ritorno in patria, Andrés sembra uno zombie. Nemmeno la sua ragazza Pamela Cascal riesce a strappargli un sorriso. Il difensore passa una settimana in giro per i locali e le discoteche di Medellin, quasi fosse una trottola impazzita, quasi avesse paura di fermarsi e di stendersi sul letto. Sa che, appena chiuderà gli occhi, sognerà quella maledetta scivolata che ha mandato la palla nella sua porta. Alle 3.45 circa della notte del 2 luglio ’94, torna nel parcheggio del Salmagundi, un locale notturno, in compagnia di tre ragazze. Pare che lì nasca una discussione con tre uomini a bordo di un Land Cruiser nero: volano parole grosse, forse per semplici motivi di parcheggio, forse proprio per quell’autorete. Fatto sta che Humberto Muñoz Castro, vicino ai PEPES che avevano già contribuito all’assassinio dell’altro Escobar, gli spara sei colpi di mitraglietta. Prima di farlo, secondo le testimonianze, gli dice: “gol!”, o “grazie per l’autogol”. Quando raggiungerà la Clinica Medellin, Andrès sarà già morto.
C’è chi sostiene che se Pablo fosse stato vivo, il suo omonimo non avrebbe fatto quella fine. Ma chi lo dice era vicino, vicinissimo al Re della coca. C’è chi sostiene – e questo è testimoniato dai fatti – che da quel momento in poi il Governo colombiano inasprirà la battaglia nei confronti del narcotraffico. I punti ancora oscuri sono tanti: si dice che il dissidio tra allibratori e scommettitori riflettesse quello tra i cartelli di Medellin e Cali. Il primo, orfano del suo capo e ridotto sul lastrico dalla scommessa sbagliata, avrebbe ordinato l’omicidio di Andrés. La teoria sembra fare acqua in ogni singolo aspetto, ma la verità è che poco importa.
Sì, poco importa. Perché il giocatore della Nazionale fu solo uno dei tanti innocenti uccisi a causa di una vera e propria guerra civile dettata dal potere, dalla droga e, inutile dirlo, dal Dio Denaro.
Questa è la storia di un ragazzo taciturno e riservato, un leader silenzioso che faceva parte di una generazione di talenti che fallì al Mondiale ’94. Questa è la storia di un ragazzo che con un tuffo disperato per salvare la porta della Colombia firmò la sua insensata condanna a morte. Questa è la storia di un ragazzo, di un calciatore, ammazzato per motivi ben più grandi di una partita o di un autogol. È la storia Andrés Escobar Saldarriaga, un ragazzo come tanti, che amava giocare a calcio più di ogni altra cosa.
Lorenzo Latini
Giornalista per vocazione, scrittore per necessità dell’anima, sognatore di universi paralleli, non ha mai ceduto alla realtà. Nostalgico all’ultimo stadio, posseduto dal “Sehnsucht” Romantico, pessimista cosmico e permaloso cronico; ritiene che i Rolling Stones, la Roma e la pastasciutta siano le cose fondamentali per cui valga la pena vivere.