Quando per la prima volta ho letto il nome del quartiere brasiliano di Vila Mimosa l’ho subito immaginato con tutte le tipicità del Brasile, i suoi colori e le sue attività di punta, come la samba o il calcio (peccando, lo ammetto, di ovvietà) giocato dai ragazzini per le vie.
Scavando più a fondo invece ho scoperto un luogo che pullula di contraddizioni, una zona che si fa portabandiera del lavoro più antico del mondo, la prostituzione. Mentre gli stranieri hanno come mete per il turismo sessuale Copacabana, Vila Mimosa accoglie una clientela locale. Risulta essere uno dei più famosi luoghi di prostituzione di tutta l’America Latina; consta di 3500 donne che quotidianamente si prostituiscono; una stima evidenzia una media di 120.000 incontri sessuali mensili. Cifre da capogiro soprattutto se si pensa che al centro di essi vi è la mercificazione di una donna.
Fabio Teixeira ha trascorso sette mesi in questo quartiere a luci rosse, raccontandone giorno per giorno lo scorrere del tempo, la normale vita che impetuosamente chiede di essere vissuta. Fabio è un fotografo di San Paolo, il quale ha iniziato la sua carriera in questo campo come assistente in studio. Pian piano si vanno delineando i suoi interessi che guardano al fotogiornalismo e alla documentazione fotografica.
Quel che emerge a gran forza da questo reportage è la violenza di certe fotografie; è però necessario uscir fuori dal classico stereotipo di “violenza” e cacciar via le immagini che automaticamente la nostra mente crea quando recepisce quel termine.
La violenza sta nel doversi prostituire nei sotterranei di palazzi fatiscenti, nel divenire come “carne da macello”, nel concludere un rapporto sessuale e poi salire al piano di sopra, nel proprio “appartamento” e preparare il biberon di latte caldo a proprio figlio. La contraddizione risiede nel accostamento di condotte di vita così differenti ma pur sempre parallele e co-esistenti: la famiglia riunita davanti una vecchia tv e un rapporto consumato con uno sconosciuto nel bagno dai muri scrostati; assumere cocaina per sentirsi invincibili, meno sporche forse, meno “presenti a questo mondo”; trascorrere del tempo con il proprio figlio di pochi mesi di vita e poi adagiarsi nude sul davanzale di una finestra per attirare clienti.
Due modi di vivere che sembrano darci un pungo in faccia; io non riesco a giudicarle, piuttosto mi chiedo quali storie hanno alle spalle, quali vissuti, in che ambiente sono cresciute e perché tutto questo; delle volte accade che da grandi si continui a fare quel che i nostri punti di riferimento facevano davanti ai nostri occhi di bambini perché è questo quel che si è visto, è questo che si è vissuto, questo è il naturale proseguo delle cose. Oppure questo è il frutto della miseria, della scarsa diffusione di cultura, di una prospettiva di futuro inesistente.
Alla fine mi fermo per un istante e mi chiedo: la normalità cos’è?
Claudia Tornatore
Sognatrice, a tratti poggio i piedi sulla terra e ogni tanto salgo sulla luna. Laureata in scienze umanistiche, considero l’arte il fulcro della (mia) vita. La mia tesi? Arteterapia. Scrivo di fotografia, mi diletto con essa : è nella mia vita da che ho memoria, in fasi e forme differenti. Amo il colore, il tè nero, gli incontri inaspettati, i sorrisi, la voglia di cimentarsi in cose nuove e la mia bellissima Sicilia.