-Dottoressa, ma lei sa chi sono io?-.
Non c’è spocchia nella domanda dell’uomo steso nel letto d’ospedale: solo semplice e genuina curiosità, accompagnata da un sorriso sdentato.
-Non sono una dottoressa, ma un’infermiera. E comunque, sì, so chi è lei, senhor Manoel-.
-Manoel? Nessuno mi chiama così da quando avevo quattro anni, ormai! Io sono, per tutti, Mané. O, se preferisce, Garrincha-.
-Certo, certo, lo so-, annuisce paziente la donna. -Ora però mi lasci cambiare la flebo, altrimenti resterà disidratato-.
L’ometto, consumato e incartapecorito dalla cirrosi epatica, fa una smorfia. -Cosa vuole che mi faccia, una flebo, ora come ora? Sto morendo, non se ne rende conto?-.
L’infermiera, un donnone con fianchi generosi che peserà almeno il doppio del suo paziente, sospira rivolgendo gli occhi al cielo. -Se non la smette di bere…-.
-Eh, smettere… la fa facile, lei! Poche cose mi piacciono come bere una bottiglia di cachaça. Le donne, per esempio: quelle mi sono sempre piaciute, ma l’avrà di certo letto sui giornali. E poi… beh, poi il futebol, ovviamente. E questo, ne sono sicuro, non l’ha dovuto neanche leggere-.
-Certo, certo. Lei ha vinto due Mondiali, insieme a Pelé. Ha reso felice un’intera nazione, insieme ai suoi compagni. E lo ha fatto per ben due volte consecutive, nel ’58 e nel ’62-.
L’uomo borbotta qualcosa di incomprensibile, quasi stesse parlando tra sé.
-Prego?-.
–“A Alegria do Povo”, mi chiamavano, quando giocavo. “La gioia del popolo”… Non male, eh?-.
-Non male? E’ magnifico, altro che “non male”! Neanche riesco ad immaginare l’emozione di giocare di fronte a decine di migliaia di persone, che ti incitano e ti spingono e gridano per te e si commuovono per un tuo gol…-.
-Ti insultano anche, però. E questo nessuno lo dice. Mi chiamavano “storpio”, alcuni di loro. Capirai che insulto!, è la verità. Sa, signorina…-.
-Signora, prego. Sono sposata-.
-Ah, bene. Contento per lei. Dicevo… da ragazzino ho avuto la polio. E avevo già alcune malformazioni congenite: come vede, sono un po’ strabico, e la mia spina dorsale curva di qua e di là come un serpente. Ho una gamba più corta dell’altra di sei centimetri, e non solo: l’avrà notato, la sinistra butta in fuori, la destra verso l’interno-. Una pausa per prendere un respiro affannato. -Ma doveva vedere come li bevevo! Ah, quei poveri difensori cileni e inglesi e sovietici li ho fatti diventar scemi. Li dribblavo, li saltavo quando tentavano di entrarmi in scivolata, e in tre secondi gli prendevo dieci metri. Ero un passerotto impazzito che svolazzava sulla fascia-.
-Un “Garrincha”, appunto-.
L’uomo sorride e, nonostante l’alcol sembri aver prosciugato perfino la sua anima, nei suoi occhi la donna vede balenare una scintilla d’orgoglio e fierezza.
-Fu mia sorella maggiore, a darmi quel soprannome. A Pau Grande, la città dove sono cresciuto, era pieno di questi passerotti marroni, i cambaxirra, ma noi li chiamiamo “garrincha”: e io, a quattro o cinque anni, non facevo altro che inseguirli, dar loro la caccia… correvo e correvo, seguendo le loro traiettorie impazzite nei boschi e lungo le strade. E siccome ero piccolino e andavo a tutto gas, mia sorella iniziò a chiamarmi “Garrincha”. Diceva che assomigliavo a quegli uccellini. È colpa sua, se nel ’58 il mio nome era l’unico a rompere la filastrocca: “Didì-Vavà-Pelè-Mané” avrebbe fatto tutt’altro effetto. Invece no, io ero l’unico senza accento alla fine e con più di due sillabe. “Didì-Vavà-Pelè-Garrincha”. E spesso finisce che chi la recita si dimentica di me. “Didi, Vavà, Pelè e… chi era il quarto?”, dicono in molti-.
-Sa benissimo che non è così, senhor Mané-, lo ammonisce in maniera bonaria l’infermiera.
-E il bello è che il secondo Mondiale, quello del ’62, l’ho vinto quasi da solo. Ma tutti a parlare di Pelé. “Pelé di qua, Pelé di là”… Per carità, come lui non ce ne sono stati e mai ce ne saranno… Ma neanche come me, se è per questo!-.
Scoppia in una risata sdentata e catarrosa, che gli provoca un accesso di tosse. Quando si è calmato, quella specie di controfigura di un uomo, che ventuno anni prima è stato eletto miglior giocatore della Coppa del Mondo in Cile, chiede con un filo di voce dell’acqua. La donna lo aiuta a bere, portando il bicchiere alle sue labbra e reggendogli la nuca con dolcezza.
Mané beve un paio di sorsi, poi si lascia andare sul cuscino con un gemito.
-Nel ’62 Pelé si fece male alla seconda partita. Io non sono mai stato un leader, uno di quelli che trascina il resto della squadra… a differenza sua, diciamo la verità. Ma ero talmente… talmente… talmente più forte degli altri, che tutto mi veniva facile. Segnai due gol all’Inghilterra ai quarti e due al Cile in semifinale. Ah, e due assist nella finale contro la Cecoslovacchia. Fu durante quel Mondiale che divenni “A Alegria do Povo”. Mi amavano tutti i brasiliani… e non solo loro. Perché li rendevo felici, con i miei dribbling e le mie corse e il mio passo sbilenco e dinoccolato. Perché mostravo loro che puoi anche essere nato nel distretto più povero del mondo, puoi anche essere… insomma… non proprio aiutato da Madre Natura, diciamo così… tutto questo conta fino ad un certo punto. Ero uno scherzo della natura che scherzava con quegli atleti scolpiti più belli e forti di Ercole. Sa cosa dissero di me e di Pelé, signorina?-.
-Signora-, gli ricorda la donna. -No, non lo so-.
-Era prima dei Mondiali di Svezia del ’58. Un medico ci visitò e parlò con noi. Sì, insomma… per vedere se saremmo stati in grado, sia fisicamente che psicologicamente, di reggere la pressione. Insomma, se eravamo… davvero i migliori, ecco. “Test attitudinali”, li definirono. E sa quel dottorino cosa scrisse? Joao Carvalhaes, mi pare si chiamasse… Beh, disse che avevo il cervello di un bambino di sei anni neanche troppo sveglio. Scrisse “minus habens”, o qualcosa del genere in latino. E su Pelé, beh… con lui fu solo un tantino più buono. Disse che la sua personalità bla bla bla, egocentrismo e roba del genere… E noi ce ne andammo lì e vincemmo la Coppa: Pelé fece sei gol e io otto assist vincenti. E tanti saluti al dottor Carvalhaes dei miei stivali!-.
Un’altra risata allegra. Subito dopo, però, Garrincha si fa serio.
-Dopo cominciarono i problemi: l’alcol, la vita dissoluta, le donne… Lasciai la mia prima moglie perché avevo conosciuto Elza Soares… sa, la cantante. Abbandonai la famiglia e le mie figlie, e questa fu la prima cosa che mi gettò in cattiva luce agli occhi della gente. Poi ci fu l’incidente… La madre di Elza perse la vita: guidavo io, ma le giuro che non avevo bevuto. Ma sarà vero? Bah, non lo so neanch’io. Forse è solo la mia mente a volermi convincere. E lì conobbi un altro demone: la depressione. Tentai di suicidarmi inalando il gas, ma chissà come mi ripresero per i capelli. E ormai non passava giorno che non mi ubriacassi… Quindi ce ne siamo andati in Italia, per un po’. A Roma, in un posto chiamato Torvajanica. E fin lì mi arrivarono le telefonate… “Hai tradito il Brasile, vergognati!”, dicevano, e giù minacce di morte. Un incubo-.
Sospira e chiede un altro po’ d’acqua.
-Tornammo qui nel ’72, e qualche anno dopo (Dio, nemmeno ricordo quando, di preciso!), in preda all’alcol aggredii Elza. Ma ormai avevo imboccato la discesa e non riuscivo a fermarmi. Santo cielo, non ci riesco tuttora… Ed eccomi qui. Ieri ho bevuto parecchio-.
-Manè, lei non ha bevuto solo ieri. Erano tre giorni che andava in giro per Bangu, bevendo in qualsiasi bar le capitasse a tiro. Per fortuna sua moglie Vanderleia ci ha chiamati…-.
-Ho la cirrosi-, dice Garrincha in un lampo di lucidità.
-Sì, è conciato male. Ma forse non è ancora troppo tardi-. L’infermiera gli prende una mano. -Ora devo andare. Ripasso nel corso della notte-.
Quando sta per uscire dalla stanza, la donna si sente chiamare.
-Cosa c’è?-.
-Sa una cosa? Io correvo davvero come se stessi ancora inseguendo quegli uccellini. Anche al Maracanà, o all’Estadio Nacional di Santiago… anche di fronte a settantamila persone… io correvo e saltavo e evitavo qualsiasi cosa si mettesse tra me e e loro. Solo che lo facevo con la pelota tra i piedi. Ed ero il più veloce e il più felice di tutto, sissignore. Nessuno riusciva a starmi dietro. Io volavo, signora. Io volavo-.
Chiude gli occhi con un sorriso, ricordando gli anni in cui tutto il mondo amava le sue gambe storte e anche i bambini di tre anni conoscevano quella specie di filastrocca: “Didì-Vavà-Pelé-Garrincha”. Ricorda le fughe sulla fascia, gli avversari seminati come birilli, i cross precisi nel mezzo e i tiri al fulmicotone che finivano dentro. Ricorda le grida e ricorda “A Alegria do Povo”.
All’improvviso, un rumore lo ridesta dal suo fantasticare. Ai piedi del letto, con la testa inclinata, c’è un passerottino che lo guarda.
-Ehi, garrincha…-, borbotta l’uomo che fino a vent’anni prima incantava il mondo. -Cosa ci fai, qui?-.
Quello risponde con un frullare delle ali, ma non si muove da lì.
-Vai, vola. Ti do qualche secondo di vantaggio. Tanto ti riprendo comunque. Scommettiamo?-.
L’uccellino accetta la sfida e vola via dalla finestra. Mentre lascia andare l’ultimo respiro della sua vita, Mané Garrincha, detto “La Gioia del Popolo”, colui che insieme a Pelé non ha mai perso una partita nell’arco di otto anni, colui che ha dribblato il mondo intero e piegato le mani ai portieri avversari con i suoi missili, si alza dal letto e parte all’inseguimento di sé stesso.
Illustrazioni di Marta Latini
Lorenzo Latini
Giornalista per vocazione, scrittore per necessità dell’anima, sognatore di universi paralleli, non ha mai ceduto alla realtà. Nostalgico all’ultimo stadio, posseduto dal “Sehnsucht” Romantico, pessimista cosmico e permaloso cronico; ritiene che i Rolling Stones, la Roma e la pastasciutta siano le cose fondamentali per cui valga la pena vivere.