In questi giorni di metà settembre, a Montreal, ridente località appena dietro l’angolo rispetto alla vostra posizione, qualunque essa sia, si svolge un festival dedicato esclusivamente all’animazione stop- motion. Linguaggio cinematografico teoricamente adatto ai più piccoli è forse quello che ai grandi piace di più parlare. Permettendo ai videomakers di tutto il mondo alti gradi di sperimentazione ed indagine interiore attraverso l’utilizzo di feticci a cui far fare tutto, ma proprio tutto quello che si vuole.
Così, visto che a me la stop- motion piace parecchio, soprattutto dopo quella visione mistica, alla stregua di un’apparizione mariana in un paese dell’est Europa, che è stato Anomalisa, mi sono ritrovata in un caldo agosto a spulciare il programma del festival in questione, sognando sciroppo d’acero e guardie forestali alte un metro e ottanta, per farmi un’idea di chi avrebbe partecipato. Molti nomi e categorie tra cui quel pozzo senza fondo di bellezza rappresentato dai corti realizzati dagli studenti delle Accademie di tutto il mondo, e poi presentazioni di film attesi, ospiti di eccezione, scambi con festival di mezza Europa e un solo nome italiano, quello di Dario Imbrogno. Quindi, in preda ad un nazionalismo inaspettato ho deciso di scoprire Dario, giovane animatore che vive e lavora a Milano e di guardare il suo corto, prodotto da Withstand (già passata tra queste pagine per “Vento” il libro di Virginia Mori e Virgilio Villoresi) e in concorso nella categoria produzioni indipendenti.
Questo è Ossa.
Una riflessione sulla stop- motion stessa di cui una ballerina di legno e carta è il riflesso. Che vediamo scarnificata fino alla sua anima di ferro, fissata a quel rig che mai verrà cancellato dall’intervento del digitale ma che rimarrà sempre in scena, a svelare un trucco continuamente smascherato dalla destrutturazione del pupazzo nel mentre che esegue la sua danza. Faretto e macchina fotografica osservano, protagonisti e sentinelle, la scenografia si smonta e si rimonta, le mani dell’animatore intervengono, morbida e sinuosa traccia dell’uomo che muove i fili.
Un concept che, come mi spiegano le parole di Dario, nel corso di uno scambio di missive telematiche, nasce dalla volontà di usare il linguaggio metacinematografico in un video in stop motion e il cui processo creativo parte da una visione per immagini: “sono partito da delle immagini non da una storia. Avevo chiaramente in testa come il video doveva apparire: gli strumenti, il materiale e i colori. Da queste visioni ho messo insieme una messa in scena molto contenuta: l’elaborazione doveva avvenire nel destrutturare una semplice situazione. Una marionetta di legno che danza su un tavolo era la struttura. Il lavoro nel cortometraggio è di rompere quella struttura. Prima a livello materiale, ovvero come è costruita fisicamente la ballerina e il suo teatro, poi a livello temporale, ovvero quando è accaduto quello che sta accadendo, senza avere un “prima” e un “dopo””.
Se la linea temporale atipica è un espediente cinematografico ben collaudato e noto ai più è sulla rottura della struttura di cui parla Dario che si fissa in modo ossessivo il mio occhio. Non riesco a togliermi dalla testa quel principio semplice ma anche un po’ perverso per il quale il linguaggio della stop- motion non lasci mai nulla al caso e che ogni gesto del personaggio, ogni sua espressione sia volutamente calcolato. Una programmazione che potrebbe avere il sapore dell’artificio ma che in realtà ci avvicina un po’ di più all’essenza della vita, nel rapporto che si va ad instaurare tra creatore e creatura, in quel tempo lento che un animatore conosce bene: “muovere un oggetto o una marionetta controllandone ogni singolo spostamento per darle un’anima propria, ci rivela quanto sia preziosa ogni piccola azione o gesto che facciamo anche senza renderci conto di averlo fatto”.
Proprio il concetto di controllo che governa questo linguaggio è il cardine attorno al quale ruota la narrazione stessa, la ballerina protagonista del cortometraggio sembra volersene liberare, con fughe e prese di coscienza della propria condizione. Ma proprio la sua natura di burattino rende vana la rivolta, crediamo che stia spezzando i fili che la legano al suo burattinaio ma anche la sua ribellione si esprime in azioni che in realtà le sono imposte. Che in questo caso le imposizioni siano materiali ed esterne è solo un caso, se vale ancora quello che Dario mi ha rivelato nel dire che l’animazione è una materia che riguarda la vita in sé stessa e che ” la marionetta è perfetta per raffigurare il conflitto che c’è tra la volontà di vivere, di fare, e il controllo reale che abbiamo nel vivere e nel fare quel qualcosa”. Un conflitto che si consuma inevitabilmente un po’ ovunque, quasi una guerra fredda in molti casi, lunga anni passati senza sparare nemmeno un colpo, ma che in altri ti può squarciare a metà. Ti può far cadere, e spezzarti.
Beatrice Lombardi
Laureanda presso il CITEM di Bologna è nata 26 anni fa dal tubo catodico. Dopo anni di amore e odio con mamma Televisione e papà Cinema ha deciso di percorrere nuove strade ed è scappata con il Web.