Forse avrete sentito parlare, nell’ultimo anno, di The Revenant. E forse anche di The Hateful Eight. Giusto così, di sfuggita. A me è successo. Per mesi e mesi ho sentito le storie dei retroscena del nuovo film di Tarantino, tra sceneggiature rubate, copie del film rilasciate prima dell’uscita ufficiale nelle sale, boicottaggi da parte della polizia Usa. Per gli stessi interminabili mesi ho letto di Leonardio DiCaprio impegnato nelle riprese estreme del nuovo film di Inarritu, le foto dal set, i trailer laconici. Dopo tale massiccia e sconsiderata inoculazione, il mio cervello lavato e sciacquato mi ha obbligato (o forse l’ho fatto proprio io di mia spontanea volontà?) a guardarli entrambi, anche se non sono proprio il mio genere, anche se io e Tarantino, dopo il nostro ultimo incontro, quasi abbiamo smesso di parlarci.
La stessa America selvaggia e tutta da fare, lo stesso periodo storico con qualche decennio di scarto con in mezzo la fondamentale guerra di secessione, persino lo stesso minutaggio, le premesse per una sfida all’ultimo sangue ci sono. Dopo tutto quello che è stato detto, è giunto il momento di presentare il conto, perché il conto qualcuno me lo dovrà pur pagare.
Quindi, Inarritu contro Tarantino, che la baruffa abbia inizio.
Ah, la natura! Entrambi i registi ci costruiscono attorno scenario e pretesto narrativo: Inarritu e i suoi panorami mozzafiato, immobili e imperturbabili, matrigni, certo, ma noncuranti delle vicende umane che li attraversano, non importa quanto crude o tremende. Tarantino e la bufera, l’unico buon motivo per cui otto personaggi si ritrovano costretti a trascorrere qualche giorno nello stesso rifugio, nonostante non si conoscano, non si fidino gli uni degli altri e abbiano trascorsi difficili.
La natura è bella, e questo è quanto. Un punto a testa sul pallottoliere. No, Quentin, solo uno. Non capisco perchè per te dovrebbe valere doppio.
La storia invece, è quella che ti tiene incollato allo schermo. Il conflitto uomo/natura può dare la spinta iniziale al carretto, ma è la storia raccontata il motore che lo fa viaggiare veloce. O lento. E’ la lentezza del carretto di Inarritu a preoccuparmi fin da subito. Guardare Leonardo DiCaprio che fa cose o immagina cose in preda alla febbre può funzionare per un’oretta ma non per le due ore e mezza della pellicola, che in alcuni tristi momenti di crisi interiore dello spettatore sembra durarne almeno cinque.
SINOSSI: Leo caccia animali per ricavarne pellicce che poi indossa in gran numero finché non viene attaccato da un’orsa, forse confusa da tutta quella peluria e dagli occhi di ghiaccio di Leo, che anche su una ragazza madre orsa fan sempre il loro effetto. Le ferite riportate sono gravi al punto che viene lasciato indietro dai compagni di spedizione cacciereccia.
Da lì: vendetta tremenda vendetta, bagno nel fiume ghiacciato, indiani cattivi, falò, cruditè di pesce, indiani buoni, cruditè di fegato, francesi cattivi, chiesa in rovina, pisolo in una carcassa, bum bum, bam bam.
Un film d’azione reiterata scelleratamente, dove succedono molte cose che compongono una lunga lista di cose fatte.
Tarantino prende invece un’altra strada, quella dell’inazione attiva. Nel film si parla a lungo, come sempre. Ma concediamo al regista la sua pratica autoerotica preferita. Anzi, sentiamoci un po’ tristi per lui, che facendo due conti, in tutta la sua carriera si è masturbato solo otto volte. Eppure in tutto questo parlare, di cose ne succedono eccome. Succede di tutto. I piccoli particolari, la narrazione verbale, gli impercettibili sguardi che danno voce alla diffidenza reciproca raccontano tutto quello che lo spettatore vuole sapere, grazie anche ad un intreccio degno del Tarantino che tutti un tempo abbiamo amato. Aprono porte e portoni dello spazio scenico chiuso, della situazione claustrofobica, della rassegnata immobilità di un puntino scuro nell’innevato Wyoming.
SINOSSI: un cacciatore di taglie sta trasportando la sua prigioniera fino alla forca. Una tormenta di neve lo obbliga a riparare in un emporio sulla strada per la cittadina di Red Rock con altri compagni incontrati per strada più altri compagni trovati in loco. Bla bla, Samuel L. Jackson, bla bla, niente cappelli in casa, bla bla, Abraham Lincoln, bla bla, negro, bla bla, narrazione fuori campo, bla, bam, bla bla, bum bum.
Adesso Quentin, adesso puoi aggiungere due punti al tuo pallottoliere, mentre tu Alejandro stai fermo lì.
Ora arriviamo ad un tema difficile, l’interpretazione. Nel lavaggio del cervello da me subito in questi mesi, un ruolo fondamentale è stato giocato da tutte quelle cose che DiCaprio ha dovuto fare per calarsi nella parte. “Tutte quelle cose che DiCaprio ha dovuto fare per calarsi nella parte” è un modo arzigogolato di esprimere un concetto riassumibile con la parola “recitazione”. Vuoi fare l’attore? Reciti. Vuoi fare il ballerino? Balli. Vuoi fare il metalmeccanico? Ti svegli alle sei e vai in fabbrica, senza che nessuno scriva una lista delle cose che hai dovuto fare per essere l’ottimo metalmeccanico che sei.
Nonostante tutto, l’interpretazione di DiCaprio è piatta, ancora non ha fatto quello striptease metaforico che ogni attore dovrebbe fare prima di indossare i panni di un altro. Io non l’ho visto, io non vedo l’ora di vederlo. Io aspetto, non ho fretta.
Tarantino di fronte ad un protagonista ne tira fuori dal cilindro otto che fondano le loro robuste radici su una sceneggiatura forte. Ma io, per gusto mio e mia somma gioia, eleggo Daisy la condannata a morte come protagonista un po’ più degli altri e mia eroina personale. Jennifer Jason Leigh ha corpo e voce, è il personaggio comico tra un gruppo di uomini impegnati nel far vedere quanto riescono a gonfiare il proprio piumaggio. Spezza, stritola, sputa sulla stessa scrittura compiaciuta del regista. Ci riporta a terra quando le chiacchiere superano la nostra soglia di sopportazione.
Il punto che sto per assegnare vale tre, perché sono io a scrivere questo articolo e io sono una donna. E seppure nella violenza preferisco il modo in cui il personaggio femminile disgraziato, bello e libero di Tarantino riempie la scena rispetto ai bisbigli che escono dalla bocca delle donne di Inarritu, prive di spessore se non anche di utilità. Corpi morti, pezzi di carne saccheggiati. Rendono ancora più maschile un racconto che è maschile per statuto ma che pure io da donna mi sarei voluta godere. Tre punti a Grifon… a Tarantino.
Nonostante le peculiarità di ciascun regista e le legittime differenze che possono intercorrere tra due film, due storie e due visioni diverse, ho voluto fantasticare su questo ipotetico match che si è tenuto nel mio stomaco (perché è lì che tengo le cose che mi piacciono). Un match di wrestling magari. All’angolo rosso el luchador mexicano Inarritu, con pantalone a frange variopinto e maschera calata sul volto che vola dalla terza corda per inarcarsi a mezz’aria. Lasciandoci tutti lì, in attesa, a guardarlo planare. All’angolo blu Tarantino unto d’olio, lampadato come un Hulk Hogan degli anni ’80, con indosso solo uno slip dorato, che va “straight to the point” alla maniera americana colpendo con un semplice pugno il mento dell’avversario, nel bel mezzo della sua elaborata coreografia.
Ma come in tutti i combattimenti di wrestling non sempre il risultato è quello che ti aspetti e per qualche direttiva giunta dall’alto, non è il tuo preferito a competere per il titolo.
Ci vediamo agli Oscar, allora. Break your leg, Alejandro!
Beatrice Lombardi
Laureanda presso il CITEM di Bologna è nata 26 anni fa dal tubo catodico. Dopo anni di amore e odio con mamma Televisione e papà Cinema ha deciso di percorrere nuove strade ed è scappata con il Web.