Immaginate di leggere un testo scritto in una lingua che non conoscete, un idioma che ricorda alla lontana il vostro in forma più arcaica, come se il tempo si fosse fermato a decine e decine di anni fa. Immaginate di leggere in questo testo alcune tra le vostre insicurezze e paure irrazionali, qualcosa di ancestrale e innato come la paura dei giganti. Da bambini cresciamo con l’immagine del gigante Golia pronto a imporre se stesso su noi stessi e su tutto ciò che ci è caro, con il suo incedere così inevitabile, cieco e sordo ad ogni supplica.
Immaginate ora che questo gigante fermi la sua avanzata senza alcun preavviso, una massa inarrestabile che diventa inamovibile. Un mostro totalmente fuori scala per i nostri occhi che di punto in bianco interrompe il suo cammino, trasformandosi in una statua di sale in mezzo al nulla.
Mettetevi nei panni di una generazione che ha vissuto un’intera vita sotto la minacciosa incombenza di questi colossi di cemento, avatar fisici di qualcosa estremamente più grande e minaccioso, qualcosa che a malapena può accorgersi della vostra presenza. Con questa consapevolezza vi svegliate una mattina immersa nel silenzio, e osservate quei giganti notando che per la prima volta sono diversi.
Quando un organismo cessa il suo ciclo vitale, lascia le sue vestigia sul terreno, così il comunismo ha lasciato sulle sue terre ciò che più può visivamente essere associato alle sue ossa: gli edifici di regime. Improvvisamente la popolazione dell’ est Europa si è ritrovata circondata da elementi architettonici obsoleti e fuori contesto. Alcuni di questi edifici hanno subito un restauro per permettere una nuova destinazione d’uso, altri sono stati abbandonati, altri ancora trasformati dagli stessi abitanti in qualcosa di diverso. Se è vero che “L’architetto trasforma una condizione di natura in una condizione di cultura” (come dichiara l’architetto Mario Botta in “Quasi un diario” – Le Lettere. Firenze 2003), cosa ha lasciato il loro progettista in eredità al mondo dopo la sua dipartita?
Questo è uno degli interrogativi a cui risponde la fotografa Rebecca Bathory, con la sua continua ricerca della bellezza nell’oscurità. Fotografa trentenne laureata nel 2006 alla “University for Creative Arts” in Graphic Design, consegue nel 2009 il master in Fashion Photography alla “University of Arts” di Londra. Successivamente espone il suo progetto “Edenias” alla London’s Mall Gallery, mentre dal 2014 lavora ad un PHD in Visual Anthropology alla “Roheampton University”. Nei suoi lavori si evince chiaramente una ricerca volta all’osservazione di luoghi fatiscenti, per evitare la loro condanna al dimenticatoio con lo scorrere del tempo. Raffigura all’interno delle rovine del ventesimo secolo resti di poesia surreale (“Orphans of Time”, “Presence of Absence”) da fondere talvolta con elementi fiabeschi (“Underworld”) o con richiami visivi fortemente radicati nella storia recente (“Soviet Ghosts”).
Le foto presenti in questo articolo sono tratte da quest’ultimo lavoro, in cui l’artista ci propone immagini dell’ex unione sovietica. Questi luoghi sono “conchiglie rotte di un’era dimenticata”, come lei stessa li definisce sul suo sito web, in cui “il collasso dell’unione sovietica ha lasciato una memoria infestata appartenuta a persone comuni, che un tempo hanno vissuto e lavorato in questi luoghi”.
In Soviet Ghosts l’artista ci propone prevalentemente immagini d’interni che ricordano luoghi abbandonati vicini alla nostra cultura, familiari soprattutto a chi abita in piccole centri dove sorgevano ospedali, alberghi e strutture pubbliche che vertono nello stesso stato di abbandono. Ciò che destabilizza è la vista dall’esterno di questi edifici, così imponenti e decadenti da rappresentare a pieno la caduta di una cultura che è stata al potere per decenni, strutture gargantuesche che enfatizzano l’enorme vuoto che è stato lasciato in eredità al popolo.
Non sottovalutate la potenza dei sensi nel percorrere per la prima volta uno spazio che visivamente appare profondamente mutato. Guardando queste foto il mio pensiero va al suono dei passi e delle parole dei singoli individui che hanno percorso questi corridoi dopo il loro abbandono. Potevo sentire nitidamente il suono dell’acciaio e delle suppellettili riciclabili che venivano staccate con forza dai muri e dal tetto da parte di un popolo che cannibalizza la sua stessa testa per sopravvivere. Chi ha percorso quei pavimenti quando rappresentavano qualcosa di imprescindibile nella vita delle persone? Forse sono gli stessi individui che successivamente hanno trasformato passo dopo passo quegli ambienti in qualcos’altro.
L’eredità che resta a noi oggi a distanza di anni è un’eredità che spaventa, una visione onirica di un mondo perfetto gestito globalmente dallo stesso regime, collassata su se stessa con risultati mostruosi. Il sonno della ragione di un popolo ha generato mostri che ancora oggi infestano con la loro bellezza decadente le città che hanno voltato pagina, stagliandosi su di loro come monito universale.
Mirko Tommasino
Mi chiamo Mirko Tommasino, ho 27 anni e da grande vorrei diventare una persona interessante. Mentre cerco il mio posto nel mondo: leggo, scrivo, osservo, fotografo, suono e progetto cose, non per forza in quest’ordine e non per forza separatamente