Il 7 di settembre arriva in alcune sale italiane (perché in tutte le altre stanno proiettando Minions) il film documentario Banksy Does New York, che racconta quel fortunato ottobre del 2013 in cui lo street artist inglese è approdato nella grande mela (e noi ve ne parlammo proprio qui), per regalare alla città 31 opere tra stancil e installazioni d’arte. Ogni giorno in una location segreta, che doveva essere trovata, innescando una caccia al tesoro dalle dimensioni epiche, documentata dagli stessi “cacciatori”, attraverso tweet, foto o filmati poi caricati su varie piattaforme. Il film nasce dal montaggio di questi materiali, sotto la guida del regista Chris Moukarbel per documentare e registrare quello che lo stesso Banksy ama di più del proprio lavoro ma che non si può godere per cause di forza maggiore: le reazioni del pubblico e la loro interazione con delle opere d’arte che sono fruibili come proprie perché risiedono nello spazio urbano, dove tutti ci ritroviamo ad abitare e formicolare.
Dai suoi inizi nella scena underground di Bristol degli anni ’80, la percezione che la società ha della street art è notevolmente cambiata, spingendo il gesto artistico sempre un po’ oltre quel sottilissimo confine che sta tra il rivoluzionario è l’istituzionalizzazione della rivoluzione. Dannosa, un’erba cattiva, che ti fa venire voglia di lasciare perdere tutto ed andare a seminare da un’altra parte.
Quello che veniva chiamato degrado e vandalismo diventa effettivamente forma artistica complessa. In-decoro urbano, riappropriazione di spazi attraverso interventi artistici di ogni tipo, fatta per sorprendere, scioccare, far sorridere davanti all’evidenza, probabilmente aprire nuovi punti di vista su metropoli costruite sull’apparente ordine, raggiunto nascondendo la spazzatura sotto il tappeto. A dare una mano all’evoluzione del fenomeno, internet e la sua capacità di immagazzinare e diffondere le tracce di un corpus d’opere che per propria natura deperisce e sparisce e la tendenza da parte degli artisti, ad uscire dalle gallerie d’arte senza nemmeno esserci mai entrati una volta. Per entrare, spesso e volentieri, direttamente nelle case dei collezionisti.
Eliminare dall’equazione critici e galleristi, è la strada più veloce per trovare il vero confronto che si cerca, quello con il pubblico. Affermare il proprio lavoro senza parole ma con slogan, senza volti ma solo con nomi (finti), senza inutili trafiletti scritti da elaboratori seriali di testi critici ma solo con l’opera nuda e cruda, è un gesto controtendenza nella società dell’apparire. Ma così onesto dal punto di vista della morale personale, per quelli che ancora ce l’hanno.
La street art sembra incarnare quella libertà tanto agognata di mostrarsi alla luce del sole messa su carta, qualche mese fa, dalla graphic novel “Lo scultore ” di Scott McCloud dove un giovane artista, dotato del dono di dare forma alla materia inerte con le sole proprie mani, rinuncia a realizzare opere convenzionali per trasformare l’intera città, per essere uno street artist.
L’azione di Banksy non si può certo però paragonare alla creazione volta all’esclusiva decorazione. Dagli stancil si è passati alla scultura e all’installazione, come filo rosso la critica alla società contemporanea, allo strapotere delle multinazionali, gli orrori della guerra, i danni del capitalismo. Tutto quello che crediamo di sapere già ma che forse non abbiamo mai guardato in faccia nonostante sia proprio sotto i nostri occhi.
Il potere sovversivo di Banksy, restando al di sopra del confine tra rivoluzionario e istituzionalizzazione di cui sopra, ci si trova allo stesso tempo invischiato fino alle ginocchia. Considerato dal Times tra le persone più influenti della terra nel 2010, candidato con il documentario Exit through the gift shop agli Academy Awards, basta una sua parola per far decollare la carriera di un artista emergente, la sua esposizione Barely Legal a Los Angeles punta i riflettori e gli occhi dei collezionisti sulla street art. Nonostante la sua refrattarietà alla celebrità personale, sembra subire il meccanismo che ha lui stesso innescato e che prende il suo nome, il Banksy effect.
Dopo aver effettivamente fatto incursione nel parco a tema Disney World con un’istallazione ispirata alle efferatezze della prigione di Guantanamo nel 2006, decide di aprire il proprio parco divertimenti nella periferia di Bristol, Dismaland, lavorando forse un po’ troppo di concerto con l’amministrazione locale. Quel tanto che basta da far storcere il naso a quelli che l’hanno sempre ritenuto il super eroe della guerriglia artistica. In linea con la propria idea di esperienza fruitiva, ma di segno diametralmente opposto rispetto agli interventi nell’area urbana di New York. Pianificati, portati a termine e annunciati senza il consenso di nessuno. Ma, se è da prendere per buona la massima per la quale sia meglio chiedere perdono anziché chiedere il permesso, è altrettanto valida quella che dice come siano solo gli stupidi a non cambiare mai idea.
Beatrice Lombardi
Laureanda presso il CITEM di Bologna è nata 26 anni fa dal tubo catodico. Dopo anni di amore e odio con mamma Televisione e papà Cinema ha deciso di percorrere nuove strade ed è scappata con il Web.