Il suo lavoro è stato acclamato da nomi importanti della fotografia, come Nobuyoshi Araki e Masafumi Sanai. Ha all’attivo prestigiosi riconoscimenti, come il New Cosmos of Photography e l’Epson Prize. A Marzo 2015 la giuria del Foam Paul Huf Award l’ha decretata vincitrice all’unanimità dell’edizione di quest’anno e presso il Foam Museum di Amsterdam sarà ospitata la sua grande personale da agosto a ottobre 2015.
Momo Okabe è una figura ambigua, una personalità enigmatica che ha fatto della fotografia l’espressione del proprio vissuto. Respinta dal mondo artistico orientale, il suo nome resta in disparte, forse a causa del suo approccio così diretto da essere considerato troppo esplicito e provocatorio, mentre si diffonde nel panorama artistico occidentale.
Solo pochi fortunati collezionisti hanno potuto posare le mani sulle due monografie di Momo Okabe: Dildo (2009) e Bible (2012).
Dildo, è un volume realizzato a mano con una limitatissima tiratura di 55 copie firmate e numerate, che ormai è impossibile trovare. Il progetto, lungo quattro anni, racconta senza timore di fornire dettagli delicati, due importanti storie d’amore che Okabe ha vissuto rispettivamente con Kaori e Yoko, donne con problemi di identità che hanno intrapreso il difficile percorso del cambio di sesso. Una delle due ottiene la rimozione dei seni, l’altra viaggia in Thailandia in vista dell’intervento finale.
Il duro percorso si dispiega in un’alternanza non lineare di immagini che rappresentano due esistenze disseminate di dolore. Veri e propri paesaggi emotivi fatti di ritratti e istantanee cariche di ambiguità di genere.
Immagini esplicite, il cui impatto scioccante scompare presto per lasciare spazio a una profonda comprensione. L’onestà dell’approccio di Momo Okabe coinvolge totalmente, creando lo stesso effetto sincero che si ha di fronte ad un album di famiglia.
Ma il suo lavoro è adatto solo ad uno sguardo svincolato dalle barriere e dagli stereotipi. Miwa Susuda, il suo editore, ha affermato di aver esitato prima di pubblicare Dildo, “perché il suo lavoro non è per tutti, ma io credo nel potere della sua fotografia, e ammiro la sua piena consapevolezza nell’esprimere le realtà sessuali”.
Il secondo libro, Bible include molti lavori inediti realizzati a Tokyo, Miyagi e in India. In esso Okabe esprime la complessità delle vite dei suoi amici e dei suoi amanti che lottano con la questione dell’identità di genere, alternando dettagli e ritratti della vita notturna di Tokyo con immagini raffiguranti la distruzione causata dallo tsunami a Miyagi. Sesso e morte si contrappongono in una giustapposizione estrema senza narrazioni, fatta solo di suggestioni visive e affinità emotive. Ciò che unisce le due parti è la spasmodica, non troppo velata, ricerca di identità e di un senso di appartenenza. Quello di Okabe è un lavoro viscerale che non teme la critica, perché frutto di puro sentimento.
Le immagini di Okabe non si riducono alla mera tecnica, ma sono necessità di espressione. Per lei la fotografia è un modo per registrare aspetti immateriali, come i sentimenti, che altrimenti andrebbero persi.
Okabe descrive i suoi due lavori fotografici come “paesaggi psicologici” messi insieme a partire dalla propria memoria, che scava in un’infanzia vissuta all’estero, in Francia, in preda all’isolamento e alla confusione: “Non conoscevo la lingua” dice “Viaggiavamo in macchina in tutta Europa. Nei musei non sapevo cosa stavo guardando e in Tv i programmi dicevano cose che non capivo. Non riuscivo a comunicare con nessuno e ho deciso di chiudermi nel mio mondo. Quando potevo guardare dal mirino della camera tutto di fronte a me diventava magico. Volevo solo vivere nel mondo che vedevo dietro le lenti. Ad oggi mi sento ancora così”.
Lavora da sola in una camera oscura nel suo appartamento a Tokyo. Qui Okabe permette ai colori e al caos del suo passato di contaminare il suo lavoro artistico. È evidente che abbia conosciuto grandi sofferenze, perché il trauma nel suo lavoro è quasi tangibile, ma lo presenta con consapevolezza.
Il lavoro artistico di Momo Okabe è caratterizzato da una linea estetica originale, fatta di cromatismi decisi che accompagnano perfettamente i soggetti raffigurati e da cui si coglie, potente, tutto l’aspetto emozionale ed estremamente intimo del suo operare. Un tocco sensibile che evidenzia tutta la complessità dell’esperienza umana.
Stefano Gizzi
A volte cerco di ricordare a quando possa risalire il primo fotogramma della mia esistenza, ma non sono mai riuscito a trovare un punto d’inizio. Perché da che ne ho memoria la fotografia ha sempre fatto parte di me.