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Vizio di forma: Paul Thomas Anderson torna nelle s...

Vizio di forma: Paul Thomas Anderson torna nelle sale.


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Il 26 di febbraio è uscito nelle sale italiane Vizio di forma-Inherent Vice, il così detto “surf noir“di Paul Thomas Anderson, con un corredino di attori di prima grandezza tra cui (solo per dirne alcuni) Joaquin “Ali della Fenice” Phoenix, Owen Wilson, Reese Witherspoon e Benicio Del Toro che per l’occasione riesuma la sua carriera di avvocato.

La pellicola, ambientata all’inizio degli anni ’70 nella California post-paranoia mansoniana, tra frange Nixoniane, pantere nere, fratellanza ariana e teorie cospirazioniste pilotate dall’FBI in persona, apre allo spettatore una finestra sulle modalità investigative di Larry “Doc” Sportello.
Investigatore privato da spiaggia, assiduo consumatore di marijuana, hippy, capellone, nemico/amico degli sbirri, che si barcamena senza troppa fatica, o crisi di coscienza, tra il  ruolo di tutore dell’ordine (beh, di un qualche ordine tutto suo) e la propria natura di meravigliosa, sfolgorante divinità del caos, anche se involontario. Quando rolli un centinaio di spinelli al giorno e te li fumi tutti da solo, diventa un po’ complesso capire il caos da dove venga, se sia tu a cercarlo o se da te venga semplicemente attirato.

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Il caso intorno al quale orbita l’azione scenica,  non è un caso come gli altri. Non solo perché fottutamente complesso, macchinoso, affollato, ma perché a commissionarne la risoluzione è stata una ragazza. Una ex ragazza, per essere precisi. E le ex ragazze non portano mai a nulla di buono. Ma magari portano ad un film.
Tratto dal romanzo omonimo di Thomas Pynchon, si accolla la tremenda responsabilità di adattare per lo schermo uno degli autori americani contemporanei più controversi e, come accade davvero di rado, fa crescere dentro di te la voglia di leggere il testo originale dal quale tutto è partito. Per assaporare a cucchiaiate belle grosse e piene, quello che nel film è stato solo una ben dosata sfumatura.

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La parola sfumatura non è scelta a caso, il film è una gigantesca sfumatura, un banco di nebbia oltre al quale non si riesce a vedere un granché, nonostante quella luce da località balneare che inonda ogni scena anche se notturna, cavoli, siamo in California!
La trama abbraccia e coinvolge lo spettatore nonostante i numerosi ostacoli sui quali lo fa incespicare, proponendo una modalità di racconto nella quale le informazioni che emergono dal procedimento investigativo finiscono nelle mani del protagonista e del pubblico nello stesso momento. Ebbene sì, viaggiamo attraverso indizi, intuizioni e deduzioni a fianco di uno strafattone in sandali, ed è lui a guidare. Buona fortuna a noi.

La visione ripetuta è in questo caso consigliata, se si vogliono cogliere tutti i minuscoli particolari della risoluzione del conflitto scaturito nei primi minuti della pellicola. Sempre che voi riusciate nell’impresa, saltando a piè pari quelli in fila per vedere 50 sfumature di grigio che è in programmazione solo da un mese (solo da un mese, capite?) per raggiungere l’unica sala nel raggio di chilometri che ha avuto, in un momento di lucidità o di mancanza di lucidità, l’idea di proiettarlo. Ma solo per una settimana o due, eh! Quindi datevi una mossa.

In ogni caso il film ve lo potete andare a rivedere anche solo per divertirvi come vi siete divertiti la prima volta. Gli espedienti comici sono innumerevoli e affidati non solo ai rapporti tra i personaggi (uno su tutti quello tra Doc e la sua nemesi Bigfoot Bjornsen) quanto ai volti e ai corpi degli attori che li incarnano. Il cast, grazie alla guida di Anderson, ha trovato nel lavoro di insieme il dosaggio perfetto tra scrittura e fisicità espressiva, dimenticandosi e facendoci dimenticare della macchina da presa.
Se qualcuno ha sposato questo concetto, recitare come se la macchina da presa non esistesse, in uno scambio più di parole che di battute, quello è Joaquin Phoenix. Che, a differenza dell’ultimo ruolo interpretato in Lei-Her, basato sul volto come specchio di un’interiorità resa ancora più interiore dall’interfaccia software che gli fa da spalla , si cala senza porre alcuna resistenza nei panni di un personaggio estremamente fisico: un corpo pieno che si muove senza alcun imbarazzo, portato al limite in ogni direzione eppure sempre credibile al di sopra di ogni ragionevole dubbio.

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Ma Vizio di forma, pur essendo un meraviglioso noir già di per sè fuori dalla norma e dannatamente divertente alla fine dei conti parla, se si guarda sotto lo strato di fumo che invade ogni stanza, di sentimenti e di emotività. Quel tipo di sentimenti ed emotività che spingono il protagonista a mettersi in gioco pur di aiutare qualcuno che si trova in seria difficoltà o che una volta si è amato molto e che non si è ancora pronti a lasciar andare via nonostante l’impossibilità di recuperare la relazione. Ecco quindi che lo spinellomane, consumatore occasionale di etere ed eroina Larry Sportello diventa quell’eroe buono che tutti quanti noi sappiamo di essere quando a bussare alla nostra porta è (forse) l’unico vero amore della nostra vita. Una di quelle cose, questa, che permette la nostra immedesimazione in un personaggio così lontano da noi nel tempo, nello spazio e nell’esperienza, nonostante la nostra abituale refrattarietà ad una vita psichedelica.

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INTUIZIONE DEL FATTONE: Detto questo potrebbe suonare qualche campanello nella vostra testa, e forse uno farebbe più o meno così: ma allora, se tutto questo è così bello e Joaquin è così bravo, perché agli Oscar non se li sono inculati di pezza? Beh, caro lettore, grazie per la domanda. L’Academy, non capisco come mai, è un pochino razzista. Non premia volentieri attori che vestono i panni di personaggi poco limpidi, come ad esempio quelli che assumo sostanze stupefacenti.
Nessun Oscar per Johnny Depp in Paura e delirio a Las Vegas, nessun Oscar per Johnny Depp in Blow, nessun Oscar per Joaquin Phoenix in Vizio di Forma: a Hollywood non si fa differenza tra droghe leggere e droghe pesanti. Niente premi per i tossici, a meno che non siano tossici la cui dipendenza degeneri in qualche malattia grave. Allora sì che va bene e se ci scappa il morto ancora meglio.
Certe malelingue potrebbero sibilare tra i denti che la commissione non premi l’attore quanto il ruolo che interpreta, ma questa sarebbe una cosa troppo orribile, anche solo da pensare. Di sicuro qualche nomination di rilievo oltre alle misere due concesse a questa pellicola avrebbe ravvivato uno show eccitante quanto una partita di curling, e che a forza di lisciate, di una partita di curling ha assunto anche l’aspetto.

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Beatrice Lombardi

Laureanda presso il CITEM di Bologna è nata 26 anni fa dal tubo catodico. Dopo anni di amore e odio con mamma Televisione e papà Cinema ha deciso di percorrere nuove strade ed è scappata con il Web.

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