Prima del calice che lo impreziosisse, prima delle etichette raffinate sulle bottiglie, prima che diventasse chic e quasi di nicchia, definibile solo con strani termini che facciamo finta di capire ma in fondo cosa significhino nessuno davvero lo sa, lontano dai ristoranti dove impeccabili camerieri scrutano i commensali con supponenza e stappando la bottiglia domandano la ansiogena frase “chi vuole assaggiare?”, seminando il panico e facendo abbassare gli sguardi con ricercato disinteresse come non facevamo dai tempi della scuola quando il professore apriva il registro per decidere chi interrogare, prima di tutto questo il vino era solo e semplicemente vino, una bevanda alla portata di tutti, che non mancava mai nelle tavole delle persone, anche e forse soprattutto di quelle più umili, ed era presente in tutta la sua ritualità, versato in semplici bicchieri di terracotta, da impugnare con la mano intera, quasi ad esaltare un rapporto diretto mano-vino.
Rossella e Paolo ci riportano a questo rito perduto, lo restaurano e lo fanno rivivere nella contemporaneità. “La comodità è sempre indice di mediocrità”, diceva Paolo Sorrentino, e loro condividono a pieno questo concetto, ispirati anche ai grandi portoni dei palazzi della loro città, Napoli, dove il passaggio pedonale non era che una piccola apertura, talmente bassa da costringere ad abbassare la testa chi volesse entrare. Certamente scomoda, ma elegante nel sottolineare il passaggio tra pubblico e privato, rigorosa nel suo imporre a comportarsi con rispetto.
C’è chi dice che, per quanto il design si sforzi di stupire elaborando le forme più disparate, di fatto le abitudini dell’uomo rimangono sempre le stesse, soprattutto nel rapportarsi con le stoviglie e le posate.
Ed è cosi che il vino abbandona il calice di cristallo, per tornare nel bicchiere “tozzo” di porcellana, e visto che tutto è frutto di un rituale e che i segni della storia non si nascondono ma si esaltano, questo bicchiere non è smaltato, ma liscio e opaco perchè a parlare sia il suo materiale nella sua semplicità, per quanto difficile da lavorare… e se un giorno dovesse macchiarsi, ben venga, è sincero.
Studiano Architettura, e poi abbandonano l’Italia senza troppa convinzione alla volta di Berlino. Cercavano uno studio di Architettura e invece hanno trovato dei Collettivi di artisti, e così decidono di mettere da parte la progettazione a grande scala per dedicarsi a quella più piccola ma 1:1, di riprendere un mestiere antico all’interno del mondo contemporaneo, in un panorama però dove il Design non è regolato e rimandato alle grandi industrie produttrici come in Italia, ma è molto più “fai da te”. E fanno nascere MONDOCUBO.
Architetti nella mente e ceramisti nelle mani, si approcciano alla modellazione ponendosi a metà strada tra artigiani e industriali, in quanto di fatto la loro è prima di tutto una progettazione degli stampi. Precisi come solo chi ha studiato architettura può essere, non si arrendono alle leggi della fisica e scartano tutti i pezzi che presentano anche il minimo difetto. I prodotti, tutti frutto delle loro mani, abbandonano il loro laboratorio di Berlino solo se esteticamente perfetti, di quella perfezione difficilissima, ottenibile solo con le macchine industriali.
Ossessionati dai rituali che dettano l’utilizzo degli oggetti, i loro barattoli, sempre minimi ed elementari, sono però inclinati per sottolineare l’invito ad infilare all’interno le mani, e hanno il tappo in legno, Mediterraneo, per riscaldare il freddo della porcellana.
Ispirati dal comportamento dei bambini, che di fronte al materiale plastico d’istinto modellano delle palline, progettano e realizzano prima il “Pallottoliere” un centrotavola modulare e modellabile, poi la serie dei gioielli. Partono dal presupposto che il gioiello influenzi il portamento di una persona, è “un’eleganza fredda” quella di chi porta i gioielli, e loro trasformano questa freddezza in fragilità. Ancora una volta parlano di rituale, chi porta il loro gioiello indossa qualcosa di estremamente fragile, pertanto tenderà a prestare più attenzione, così tanta da dare più valore al piccolo oggetto di porcellana.
Non so se definirle “opere d’arte”, o “pezzi di design”, ma in fondo credo non sia necessario dare per forza una definizione.
So che sposo la loro filosofia, invidio la loro manualità, e adoro i loro prodotti.
Federica Emma Longobardi
Mi sono laureata in Architettura, decisa a fare del bello e dell’ordine il mio lavoro. Sono curiosa, credo nelle idee, nelle buone idee, mi piace ascoltarle e farle mie anche solo per il tempo di un racconto.