Passeggiando per la città siamo bombardati da input che ci assalgono, è tutto troppo veloce e troppo denso di informazioni perché possiamo realmente metterlo a fuoco, l’unica cosa che possiamo fare è “subire” questo kaos di colori e dettagli, lasciando che solo quelli più “forti” ci rimangano impressi. Non siamo più abituati a guardare, o forse non ne abbiamo il tempo. Siamo sempre troppo concentrati su qualcos’altro per guardare oltre il piano terra dei palazzi che si ergono lungo le strade delle nostre città, troppo pragmatici per emozionarci per un gioco di luce. Conosciamo dei posti a migliaia di chilometri perché li vediamo su internet, e siamo così abituati a una percezione rapida delle cose che a un certo punto ci convinciamo di esserci stati. Non apprezziamo più il gusto del “fermarsi a guardare”, instauriamo un rapporto immediato e incredibilmente selettivo con quello che ci circonda, viviamo per sequenze che si inseguono. E l’utilizzo che facciamo dei social network è lo specchio di questa realtà, basata su una visione instantanea delle immagini, messo il “like” non ci si pensa troppo, si sta già guardando il post successivo.
La fotografia, rimane invece un’occasione per interrogarsi sull’apparenza dei luoghi, fornisce un’immagine non solo illustrativa ma critica, con un valore intellettuale dato dalla selezione del fotografo di quella porzione del paesaggio che contenga in sé l’intero e tutti i suoi elementi indentitari. Il fotografo ha uno sguardo educato ad osservare.
Ci sono poi fotografie che sembrano un progetto di architettura, o meglio, lo raccolgono al loro interno, perché pongono l’accento proprio su quei dettagli del paesaggio che ne determinano l’identità e a volte anche le criticità, ma lo fanno in una maniera costruttiva, sottolineandone trascorsi storici e descrivendone scenari eterei.
La vision paysagère di cui ci parla Giaime Meloni nella sua tesi di dottorato è una ricerca sulla cultura del progetto architettonico che mette in evidenza il contributo della fotografia nella trasformazione del territorio. Si tratta di attribuire alla disciplina fotografica il ruolo di strumento utile al progettista per conoscere il paesaggio attraverso lo sguardo dell’autore, al pari di una cartografia o di un testo descrittivo, uno strumento che ci racconti il luogo così com’è, senza abbellirlo dell’affetto che prova chi lo vive o condannarlo per il suo passato.
Il tema della ricerca era l’Area del Sulcis, in Sardegna, connotata da una forte storia industriale e mineraria, e ad oggi soggetta a importanti modificazioni orientate al riutilizzo di strutture ormai in disuso e territorio a fini turistici. Il tema, estremamente delicato ma al tempo stesso rappresentativo di una problematica che interessa non solo l’area in esame ma molti altri territori regionali, ha stimolato Giaime a ricercare nuovi strumenti con cui elaborare una conoscenza completa del luogo e attraverso un avvicinamento graduale ha imparato ad apprezzare l’importanza della disciplina fotografica al fine dello studio del paesaggio, tanto da farlo diventare tema fondamentale della sua ricerca. La tesi, impostata a Cagliari presso l’università di architettura, è stata poi sviluppata grazie all’LAVUE (Laboratoire Architecture Ville Urbanisme et Environnement) di Parigi, dove ha trovato nuovi stimoli e nuovi apporti grazie a un forte dibattito culturale sul tema.
Nella sua tesi, Giaime ci racconta l’approccio spaziale di diversi fotografi fra cui Marco Introini che segue le fasi del progetto architettonico per approfondire la conoscenza del territorio e riuscire quindi a interpretarlo attraverso immagini. Si avvale quindi di cartografie, sulle quali tracciare le posizioni fotografiche, e solo dopo si reca personalmente sul luogo, nel quale prima di tutto realizza degli schizzi, dove sintetizza quelli che per lui sono gli elementi rappresentativi dello spazio e li identifica attraverso la prospettiva, mentre lo scatto arriva solo nel momento in cui riesce a interiorizzare l’immagine.
Particolare importanza viene data all’errare del fotografo nel luogo, secondo la doppia radice del verbo latino di “camminare senza meta” e “sbagliarsi”, che racchiude in sè il percorso lento dell’autore nel studiare fisicamente il paesaggio per arrivare all’estrema sintesi dello scatto.
Forse l’osservazione delle cose è stata la mia più importante educazione formale; poi l’osservazione si è tramutata in una memoria di queste cose. Ora mi sembra di vederle tutte disposte come utensili in bella fila; allineate come in un erbario, in un elenco, in un dizionario. Ma questo elenco tra immaginazione e memoria non è neutrale, esso ritorna sempre su alcuni oggetti e ne costituisce la deformazione o in qualche modo l’evoluzione.
Aldo Rossi, Autobiografia Scientifica, Pratiche Editrice, Parma 1990, p.27
Federica Emma Longobardi
Mi sono laureata in Architettura, decisa a fare del bello e dell’ordine il mio lavoro. Sono curiosa, credo nelle idee, nelle buone idee, mi piace ascoltarle e farle mie anche solo per il tempo di un racconto.