Ciao Giuseppe, parlaci un po’ di te per iniziare, chi sei, dove vivi, da quanto tempo fotografi e come hai iniziato.
Ciao Giuliana, vivo da tanto tempo a Bologna, ma torno spesso a Bari, ho fatto il tentativo di emigrare vivendo quasi tre anni a Lisbona e per un brevissimo periodo ho provato anche Berlino. Rimpiango molto Lisbona.
Mi sono occupato sopratutto di cinema per lavoro. Da prima di laurearmi in DAMS Cinema a Bologna, ho co-diretto per alcuni anni il festival cinematografico Imaginaria di Conversano. E’ stata un’esperienza molto intensa e importante, ma ad un certo punto è arrivato il momento di smettere di lavorare per gli altri e ho deciso di dedicarmi ai miei lavori.
Ho cominciato presto a fare fotografie grazie a mio fratello che mi prestava la sua attrezzatura. Fotografo perché non so disegnare e perché la fotografia è un linguaggio più immediato di altri. Però è diverso tempo che saltello tra la fotografia e altro. Trovo il legame con la fotografia troppo condizionato dal mezzo che si usa. Non mi sento figlio dell’invenzione della fotografia, ma forse più delle conseguenze che la fotografia ha generato.
Ho conosciuto il tuo lavoro per la prima volta a Bari, durante un workshop dove venivano presentati i lavori dei partecipanti, il tuo mi ha affascinata molto, lo presentavi in una scatola di legno e dentro cartoline contornate bianche, il progetto si chiamava “Strada Maggiore 49 (Casa Arcangeli)”, parlaci di come è nato, cosa ti ha spinto a fotografare questa casa “spogliata”?
La mia ricerca è “normale” fino alla banalità, me ne rendo conto, ma credo che in certi casi possa essere un punto di forza e poi non potrei fare diversamente.
Strada Maggiore 49 (Casa Arcangeli) nasce dall’ esigenza di tentare di gestire il tempo, nella piena consapevolezza che ciò è impossibile.
Nel momento in cui una cosa nasce, in realtà, sta già andando verso la morte. Prima di arrivare alla morte ha dei passaggi ed è in uno di questi passaggi, verso la morte di una casa che ho voluto entrare in gioco io.
I miei nonni avevano la calce facile! Non appena appariva un segno su un loro muro erano pronti a cancellare questi segni di invecchiamento con un colpo di pennello e di bianco. Ho notato questo sin da piccolissimo. Quando i miei genitori dovevano imbiancare casa, rimanevano sul muro i segni di ciò che fino ad allora era stato lì per del tempo. Impazzivo per quelle tracce come fossero i segni lasciati da un orologio dopo una giornata di sole forte o le orme del primo uomo sulla luna.
Nei mille traslochi da studente segnavo a matita queste tracce lasciate dall’ inquilino che aveva appena liberato la stanza che io stavo per occupare, come per delimitare delle “ere” di esistenze qualunque. Sentivo il bisogno di registrare le orme di vite straordinarie ed ecco che arrivano gli Arcangeli.
La famiglia Arcangeli è stata una delle famiglie più intellettualmente attive di Bologna negli ultimi cinquant’ anni. Le loro vite sono divampate nella loro dimora di Strada Maggiore e come in un’opera di Claudio Parmiggiani, gli incendi lasciano delle tracce evidenti.
E nelle mie fotografie si sovrappongono tracce su tracce: quelle dei quadri a quelle dei libri a quelle delle mani che hanno tolto i quadri e il libri dal loro posto.
Era questa la mia intenzione: registrare delle tracce. Non volevo assolutamente raccontare la storia della famiglia Arcangeli né mi interessava documentare lo svuotamento della casa dopo che la famiglia si era praticamente estinta.
I tuoi progetti si dividono tra nord e sud, sei spesso diviso tra la documentazione del passaggio di immigrati e il suolo e le macchine nelle fabbriche del nord, come vivi questo dualismo? Perché tra tanti, hai deciso di fotografare questi aspetti?
I miei progetti si sviluppano attorno a soggetti che devo conoscere bene e devo sentire vicini a me. Spesso sono soggetti che fanno parte del mio mondo o che hanno fatto parte della mia famiglia. Non ho mai lavorato, per esempio, sul territorio della mia regione d’adozione, l’Emilia Romagna (a parte il lavoro su casa Arcangeli). E’ molto difficile parlare di ciò che si conosce poco profondamente. Quando mi viene chiesto di lavorare su territori che non conosco mi concentro molto sul suolo, su quello che calpesto o che sto per calpestare e quindi sto per conoscere con i piedi più che con gli occhi. Gli occhi scorgono e scovano, si illudono a volte e possono sbagliare, ma se ci metti i piedi su un suolo sai dove li stai mettendo! Se non conosco un luogo e non provo nessuna “attrazione” non riesco a fare nulla. L’affezione alle macchine meccaniche, in generale, deriva dal fatto che le usava mio nonno paterno e mio padre. Poi le apprezzo particolarmente perché compiono azioni cicliche e quasi perfette come avviene negli orologi. E poi ci sopravvivono tutte, ma hanno bisogno delle nostre cure per funzionare bene e questo le rende tenere e quasi umane.
Hai fotografato stracci e indumenti su scogliere e spiagge, hai chiamato questo progetto ” i resti del viandante”, sei partito anche tu e hai viaggiato molto nella tua vita, perché questo progetto? Quali resti hai lasciato indietro?
Il progetto “i resti del Viandante” che poi è diventato un libro grazie a Milo Montelli di Skinnerboox, è un lavoro metaforico. Come in una casa dopo il suo abbandono, ogni passaggio attraverso un territorio lascia un segno e il territorio lascia un segno su di noi. Tutto si segna in questa esistenza e questo mi affascina moltissimo. Ogni segno contiene una storia che a volte non sa di contenerla. Quando vedo degli schizzi di vernice rossa su un blocco di cemento in un cantiere navale penso a quanto possa essere geniale l’inconsapevolezza, anche molto più del gesto controllato. Questo cerco di riportarlo sempre nel mio lavoro. Anzi, in generale direi che il mio lavoro si fonda sul tentativo fallito di controllare il tempo e l’esaltazione dell’inconsapevolezza.
Quando ho raccolto depositi di povere su degli scarti di pellicola nella serie Dust constellation, sapevo solo che volevo generare delle costellazioni finte o delle immagini di costellazioni che non esistono nello spazio sopra la mia testa, ma nello spazio attorno ai miei piedi.
Un posto che oggi chiami casa.
Oggi, Mantova, dove vivo con la mia compagna e dove ho i miei oggetti d’affezione.
i tuoi lavori sono molto curati e rivelano una particolare attenzione per l’analisi dei luoghi, quando esci con la macchina fotografica sai già cosa fare oppure scatti e, solo dopo, cerchi di dare un taglio schematico alle tue immagini?
I miei lavori nascono quasi sempre su fogli di carta e in punta di penna, in forma di appunto e schizzo. Quando sono pronti lì allora uso gli attrezzi che servono; a volte scelgo quello giusto, a volte no.
La forma mi interessa molto soprattutto per il tentativo continuo di trasformare il rifiuto, lo scarto, l’immondizia, la polvere in opera. Sono un po’ cinico, ma gongolo molto quando vedo delle vecchie fotografie di bidoni di immondizia della serie (in casa) o uno scheletro di coniglio morto o il retro della farmacia di un mio amico nei salotti “buoni” di chi ha voluto queste immagini.
A quali progetti stai lavorando adesso? Cosa ti piacerebbe realizzare nel tuo futuro?
In questo momento sento un fortissimo richiamo verso le origini. Origini culturali e geografiche soprattutto. Da queste riflessioni comuni sta nascendo un lavoro sugli oggetti di mio nonno meccanico/designer assieme a mio fratello e un collettivo con l’artista salentino Luca Coclite che invece affonda le radici in un terreno culturale, iconografico e anagrafico comune.
Sto anche cominciando un lavoro fotografico su una straordinaria grandinata che ha colpito la circoscrizione in cui sono nato e cresciuto alle porte sud di Bari, Torre a Mare, prima dell’estate.
L’intervista è finita, dicci il tuo gusto di gelato preferito, il regista, l’artista e il fotografo che stimi di più.
Il mio gusto di gelato preferito “universale” è il pistacchio (quello vero, no verdi strani). Ma se sono a Bologna devo mangiare il gusto “mediterraneo” di Stefino: pistacchio, mandorle e pinoli…
Come regista, tra diversi, scelgo Yasujiro Ozu e Gerhard Richter come artista.
Ringraziamo Giuseppe per la sua disponibilità e vi invitiamo a visitare il suo sito: http://giuseppedemattia.tumblr.com/
Giuliana Massaro
Giuliana Massaro, 26 anni, studentessa di lettere moderne da un po', lunatica da sempre. Penso troppo, parlo poco, faccio foto.