Horror vacui. Molto nero e poco bianco, segni che rimandano a geometrie organiche, sregolate e confuse, molto poco rigorose, dettagli. Un flusso continuo di cose che si accumulano. Ma non è matematica, non è geometria, è musica.
E’ la musica noise che suonava a quindici anni, quando con la sua loop station riempiva gli spazi, non voleva il silenzio intorno a lui, nulla doveva essere vuoto. E un giorno, forse per caso, forse poco cosciente del fatto che questo poi gli avrebbe cambiato la vita, ha aperto la sua Moleskine e ha deciso di lasciarsi andare, lasciarsi portare dal suono e riportare graficamente i rumori che sentiva, di mettere nero su bianco i segni che la musica gli dettava. Il bello del quaderno è che il disegno non finisce mai, è un unico che si insegue tra le pagine, è processuale e meccanico come la mano che si muove quasi autonomamente, lasciando la mente libera di vagare e riempire anche lo spazio dei pensieri. È Andrea (Spentriu, Facebook) nella sua vita, dove il tempo è sempre denso, non avere nulla da fare gli mette ansia, ed è tutto o bianco o nero, mai grigio.
Un parassita invade le pagine, e nell’intreccio di segni perlopiù astratti rimane immerso un unico elemento riconoscibile che si ripete: l’occhio. L’occhio come sfera, l’occhio come modulo del disegno, l’occhio di un dio che guarda e giudica, l’occhio come simbolo della visione sensoriale ed extrasensoriale, mistica. Ma l’occhio sarebbe diventato poi l’estrema sintesi del suo modo di concepire il rapporto artista-opera e spettatore-opera: “io guardo l’opera e l’opera guarda me”. Questi sono i suoi lavori più spontanei, a cui è più affezionato.
Si ritaglia sempre più spesso il suo momento “meditativo”, applica delle variazioni mantenendo però sempre la sua ossessione per la ripetizione, le sue composizioni, più o meno dense, più o meno nere, non sono che un inseguirsi di tratti, di segni, di rumori che astrae e riconduce a geometrie imperfette, influenzato e stregato anche dall’arte araba e dalle sue composizioni geometriche.
Viaggia e scopre, disegna, riempie, ma si accorge che lo spazio del foglio non gli basta più. Il foglio non è che l’unica porzione visibile di una trama che in realtà esce dal foglio stesso per sua natura, per il suo desiderio di invadere e contaminare lo spazio. È riduttivo, è una finestra che inquadra, offre una visione limitata del mondo intero.
Vuole un luogo, o meglio, un altro luogo. Prende uno spazio reale, con la sua identità, con la sua matericità, e lo riveste dei suoi disegni facendo si che questi lo mangino e lo trasformino in qualcos’altro, un mondo altro, a metà strada tra il reale -tangibile- e l’irreale del labirinto di segni che leggiamo nel suo pattern. Eterotopia. E così una semplice stanza con un tavolo e una sedia, diventa un luogo da scoprire, un’esperienza da percorrere. Secondo la sua logica infatti non c’è una gerarchia, non c’è un elemento che merita di rimanere libero dalla seconda pelle. Tutto viene invaso da questo parassita, non solo le pareti ma anche arredi e soprammobili, bottiglie e pentole, e diventa un altro luogo, un luogo che esiste quanto esiste l’immagine riflessa da uno specchio, un luogo in cui entrare, di cui fruire, e che se si guarda attentamente presenta milioni di altri possibili luoghi in cui andare a perdersi. Porte che si aprono, prospettive di città, pavimenti che fluttuano, cubi da scalare. Guardare i suoi pattern è già percorrerli.
Federica Emma Longobardi
Mi sono laureata in Architettura, decisa a fare del bello e dell’ordine il mio lavoro. Sono curiosa, credo nelle idee, nelle buone idee, mi piace ascoltarle e farle mie anche solo per il tempo di un racconto.