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Intervista al Gypsy Brewer Umberto Calabria aka Ju...

Intervista al Gypsy Brewer Umberto Calabria aka Jungle Juice


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Se ci seguite da un po’, credo che Umberto ormai lo conosciate un po’ tutti.
Abilissimo degustatore di birre, nonchè responsabile della ricetta di Clorofilla (se non vi piace, ora sapete con chi dovete prendervela) ottimo redattore e ormai pilastro della banda Organiconcrete.
Da qualche giorno ha fatto il grande passo verso la Beer Firm, fondando la Jungle Juice Brewing e dando vita a quello che, come lui stesso racconterà, è stato da sempre un grande sogno. 
Gli ho fatto qualche domanda, partendo dall’Umberto-non bevitore, passando per la questione delle birre artigianali in Italia e arrivando a discutere del suo ultimo progetto.
Ecco cosa ci ha raccontato.

Abbiamo letto tanto delle birre che hai assaggiato, ma poco di te e di quello che fai. Prima che i nostri lettori ti scambino per un alcolista anonimo, ci racconti chi è Marco Umberto Calabria e cosa fa nella vita quando non è intento ad assaggiare birre?
In effetti nonostante possa apparire da quello che scrivo su queste pagine una persona totalmente estroversa e spigliata, nella pratica sono un tipo abbastanza timido e riservato, e non mi piace tanto trovarmi al centro dell’attenzione né parlare di me in prima persona… quindi situazioni come questa mi creano sempre una certa dose di “imbarazzo”! Diciamo che sono sempre stato dominato da una quantità di inquietudine interiore abbastanza elevata che ho cercato nel tempo, come molti del resto, di esorcizzare in vari modi e in vari canali che via via attraevano la mia attenzione. C’è sempre stato in me il bisogno di fare “altro” oltre che percorrere una strada diciamo “canonica” e questo, che può sembrare una bella cosa, in realtà ha portato spesso ad incasinarmi ancora più i pensieri e la vita! Posso dirti che forse l’imbarazzo nel parlare di me parte un po’ già dal mio nome di battesimo, abbreviato praticamente sin da subito dai miei genitori semplicemente in “Umberto” – che è poi quello che mi sento e sono sempre stato “ufficialmente” – finendo però per costruire inconsciamente almeno altri due “personaggi” forse, il “Marco” e il “Marco Umberto”, che devono pur avere qualcosa a che fare con l’inquietudine che mi porto sempre un po’ dietro insieme alle solite domande che si fanno in molti, “chi sono/siamo?”, “dove sto/stiamo andando?”, nella ricerca perenne del senso delle cose e di quel me stesso che fatico costantemente a scovare! Comunque, nasco a Roma ventisette anni fa e una volta terminati gli studi classici decisi, in piena crisi post-adolescenziale, di iscrivermi alla facoltà di Giurisprudenza a Roma. Nonostante i numerosi dubbi sorti sin dall’inizio – accresciuti a dismisura dopo alcuni importantissimi mesi trascorsi in Erasmus a Bilbao – ho terminato gli studi in maniera per così dire “brillante” a novembre del 2011 (era un mercoledì) e poco dopo ho iniziato a lavorare nel settore corporate compliance della società del Ministero dello sviluppo economico che si occupa della disattivazione delle strutture e dei rifiuti nucleari ancora “attivi” nel nostro paese. Questa diciamo è la mia strada “ufficiale”, alla quale però come ti ho detto ho sempre avuto la necessità di affiancare altro che mi appassionasse a momenti sempre in maniera molto intensa, andando a riempire strade molto più intricate e contorte che difficilmente correvano parallele alla prima, assieme ai tanti dubbi esistenziali che da sempre mi porto dietro. Così è stato per lo sport da giovane, la musica ascoltata, suonata e poi “costruita”, e la birra artigianale più di recente. Tutte cose in cui ho canalizzato e cercato di esprimere – come in maniera molto ordinaria in realtà fanno in molti – quei mondi interiori che con le parole non sono mai stato molto bravo a comunicare.

Degustatore di birre, homebrewer, redattore per la nostra rubrica A Sorsi Di birra, papà di Clorofilla e vincitore di svariati premi nel mondo della produzione di birre artigianali. Come e quando ti sei appassionato all’universo delle birre? E qual è stato il primo passo che hai fatto verso l’homebrewing?
La scoperta delle birre artigianali nacque praticamente da zero nel corso di un bel viaggio in interrail che trascorsi in Belgio ed Olanda con due amici durante l’estate del 2010. Fu proprio in Belgio che venni a contatto con le prime birre “diverse” e ne rimasi totalmente colpito. Da qui la strada fu breve per sentire la necessità di approfondire il più possibile l’argomento: mia sorella mi regalò per la Laurea la frequenza ad un corso di Degustazione di birra presso Adb Lazio (per la quale poi successivamente divenni docente) e quasi nel contempo avviai gli esperimenti e gli intrugli casalinghi con il solito kit che si trova facilmente in giro, regalatomi inconsciamente dalla mia ragazza, perché avevo troppa voglia ed esigenza di capire meglio cosa c’era dietro quel bicchiere. Il primo esperimento, una birra alle castagne, ebbe ottimi riscontri e decisi di continuare, approfondendo da profano materie a me totalmente estranee come alcuni fondamenti di chimica e biologia.

Una volta mi parlasti della birra artigianale, come una vera e propria filosofia di vita. Che cosa vuol dire per Marco Umberto Calabria, produrre birra artigianale?
Fare birra è sempre una sfida. Trovo ci sia molto fascino nel costruire e dar vita ad un qualcosa che ha bisogno di tempo per crescere e che nel tempo cambia e si trasforma. E’ un processo in cui c’è sempre da imparare e da prestare attenzione e migliorarsi, perché per quanto tu possa fare, studiare e preparare per come desideri tu il “tutto” ci sono sempre degli elementi naturali e un minimo “aleatori” da cui inevitabilmente dipende la tua creazione, i quali devi imparare a conoscere, cercare di dominare e rispettare. La birra inoltre è un elemento per definizione destinato ad essere consumato e “terminare”, vive quindi un po’ nel ricordo che hai di quello che hai bevuto e le sensazioni, inevitabilmente legate al momento e all’occasione della bevuta, o alle poche bottiglie che riesci faticosamente a far invecchiare in cantina, assaggiandole nel tempo e mischiando quei ricordi ai successivi fino all’ultima bottiglia rimasta, vedendo quella stessa birra di partenza, paradossalmente, virare e trasformarsi in tante altre in base al trascorrere delle stagioni.

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È un dato di fatto che oggi tutti in Italia parlino di birre artigianali, come una moda di cui è bello riempirsi la bocca, ma che poi in pochi conoscono davvero. Secondo te, come siamo messi in Italia con le birre artigianali? Mi riferisco alla recettività da parte degli italiani, non tanto agli ottimi birrifici di cui parli spesso nella rubrica.
Il numero di Birrifici e marchi sta crescendo vertiginosamente ed è sempre più difficile distinguersi nelle proprie idee e prodotti. Il pubblico italiano è abbastanza ricettivo in questo settore e molto curioso, probabilmente perché una birra artigianale e “diversa” è vista ancora come novità da scoprire da parte di molti. In realtà, per lo stesso motivo per il quale nel nostro paese non esiste una forte tradizione di birra i consumi di questa bevanda sono ancora limitati, se paragonati agli altri dei maggiori paesi con una forte tradizione alle spalle, pur se nel tempo stanno via via crescendo. Il mercato della birra italiana è sicuramente in espansione, anche all’estero dove è molto richiesta ed apprezzata, ma attendo con ansia il momento in cui questo fenomeno possa essere ritenuto come “normale” e “consolidato” da parte del pubblico e gli addetti al settore, per capire cosa succederà!

Sfatiamo un mito: le birre artigianali costano tanto. Troppo.
Si le birre artigianali hanno un costo abbastanza elevato, se paragonate alle becere industriali e in diversi casi al vino. In Italia purtroppo le dimensioni ancora abbastanza ridotte dei birrifici non consentono il generarsi di economie di scale elevate e tutto ciò, unito alla burocrazia, all’aumento delle tassazioni sui prodotti alcolici e ai passaggi e ricarichi nella catena distributiva finisce per far lievitare il prezzo finale nei confronti del consumatore. Alla fine però è sempre una questione di scelte, come ripeto spesso. Ma anche di intelligenza nel capire se un ristoratore ignorante ci sta fregando o meno. Con la pratica si finisce poi nel comprendere questi meccanismi e a fare le scelte più opportune. In quest’articolo di qualche mese fa trovate altre considerazioni sul tema.

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Passiamo alla tua ultima creatura. Dopo l’esperienza con Clorofilla, hai deciso di fondare un tuo brand: Jungle Juice Brewig. Come è nata quest’ idea? E soprattutto, come pensi di affrontare il problema (ammesso che lo sia) del non avere un birrificio proprio?
L’idea in realtà nasce parecchio tempo fa e da un po’ desideravo fare questo passo, ma sono un tipo abbastanza metodico (forse troppo) e sentivo ancora la necessità di continuare a studiare e continuare a fare prove per apprendere il più possibile. Poi ad un certo punto ho detto “beh, buttiamoci” tanto la necessità di approfondire me la porterò sempre dietro, assieme alle cose che ancora non comprendo. Così negli ultimi mesi ho lavorato con pazienza e discreta fatica a questo marchio che pensavo da un po’ in testa e che poi ha preso, come spesso accade in base alle circostanze, delle pieghe e direzioni che all’inizio non hai mai in mente! Jungle Juice Brewing è un birrificio itinerante, Beer firm, Gypsy Brewing, chiamiamola come vogliamo… ovvero una cosa che adesso si trova abbastanza comunemente in giro, ovvero il produrre le proprie ricette affittando gli impianti di produzione e le strutture di birrifici in carne ed ossa. Nonostante ci siano molte critiche su questa realtà al momento, a me l’ottica ha sempre affascinato, assieme agli istanti di condivisione che si creano con i produttori che scelgo per le singole realizzazioni, selezionati in base ai rapporti di stima e fiducia che nutro per loro e in base alle produzioni che ritengo gli siano più congeniali. Ovviamente ci sono diversi “contro”, sulla base dei costi ad esempio e l’impossibilità di avere il governo al 100% della propria birra dall’inizio alla fine. Ma per il momento voglio continuare su questa strada perché avere un birrificio “che non esiste” è per me un modo curioso e paradossale di esorcizzare una realtà che dagli studi di Beckett e Pinter al liceo trovo ancora un po’ “assurda” e nello stesso tempo intrigante.

Proprio da Jungle Juice Brewing vengono fuori due ottimi prodotti che ho avuto modo di assaggiare proprio qualche giorno fa: la Jellyfish – Saison brassata nel birrificio Turan e la Baba Jaga – American IPA prodotta presso il Piccolo Birrificio Clandestino. Ci parli di queste prime birre firmate Jungle Juice?
Prima di tutto voglio inserire nel discorso Emanuele Grimaldi (Marimo, Whiskey & Mentine) e Patrizio Anastasi (Turquise Island, Studio Pilar nonché vecchia conoscenza di Organiconcrete), rispettivamente grafico e illustratore del progetto. Con il primo, “compagno di classe superiore” condivido da tempo numerosi momenti di quotidianità e devo ringraziarlo tantissimo perché mi ha seguito a più non posso, aiutandomi nel processo di definizione delle idee e di creazione delle strutture visive, presentandomi tra l’altro proprio Patrizio, che è stato da subito disponibilissimo ed entusiasta di partecipare al progetto, disegnando dapprima “el bananòn” del marchio e poi le etichette, che trovo nel complesso davvero ben riuscite. Insieme abbiamo lavorato alla grande e gli devo già molto, augurandogli il meglio per il futuro perché oltre degli eccellenti “professionisti” sono davvero delle ottime persone, cosa che ritengo la più essenziale di tutte.

Quanto alle birre, la Jellyfish (6%) è l’adattamento abbastanza puro di una ricetta sperimentata in casa, una Saison, birra tipica delle campagne belghe, modificata con l’aggiunta di un paio di tipologie di frumento e una discreta percentuale di malto di segale, che contribuisce ad approfondirne il carattere per origine “rustico” e “speziato”. E’ stato usato inoltre un luppolo francese abbastanza recente, l’Aramis, che trovo si abbini bene al tutto per le note erbacee e lievemente agrumate che sprigiona.

La Baba Jaga (6,7 %) è invece un American IPA abbastanza canonica, centrata sui luppoli da amaro ed aroma ma con una buona base maltata/caramellata ed un buon corpo. E’ una birra tipicamente molto spinta e i luppoli impiegati (centennial, simcoe, citra) rilasciano note esplosive di frutta esotica, frutta rossa, agrumi, uva spina e aghi di pino.
A queste due si aggiunge una collaborazione con il “grandecapo” Davide Frosali, ottimo birraio di Eataly Birreria a Roma e caro amico, con cui abbiamo realizzato la Lady Jane, Belgian Pale Ale sui generis ancora in fermentazione che tra qualche settimana sarà disponibile presso la Birreria.

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Hai già in mente qualche altra idea o qualche altro progetto per Jungle Juice Brewing?
Le idee sono sempre in fermentazione, ovviamente, ma non mi faccio tanti piani a lungo termine. Come sogno c’è senza dubbio quello di allargare Jungle Juice all’estero girando il più possibile, cosa che mi affascina davvero moltissimo.

E per Organiconcrete :P ?
Clorofilla è stata un esperimento importante per capire che potevo farcela e capita spesso che mi richiedano quando sia disponibile di nuovo… quindi una volta superato questo momento iniziale in cui ho ancora parecchie cose da aggiustare perché non pensare di continuare sulla stessa strada?

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Alessandro Rossi

Alessandro Rossi, fondatore di organiconcrete e pseudo studente di Ingegneria Edile-Architettura presso "La Sapienza" di Roma. Ossessionato dai buchi temporali, dall'eta adolescenziale, dal trascorrere del tempo, dai rapporti umani e dall'arte. Irrimediabilmente fesso.

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