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Tuesday poison: l’arte dei poster negli anni ’60 e ’70


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L’argomento che andremo a trattare oggi a primo impatto può sembrare semplice, banale, ma solo perché ormai siete abituati alla sua presenza. In verità è un  oggetto d’arte che nasconde insidie e sottintesi, che riecheggia amore verso la nostra stessa opera, verso il nostro io e la nostra immagine e ci indica il modo in cui quest’amore può essere utilizzato come veicolo di propaganda al fine di far conoscere, ammirare ed apprezzare non solo l’opera in questione, ma anche il suo fermo immagine, tanto da far diventare, in molti casi, questo stesso fermo immagine, più importante dell’opera che vuole rappresentare.
Oggi  parleremo del poster.

Cosa sia materialmente un poster lo sappiamo tutti. Tutti ne abbiamo visto uno, lo abbiamo magari posseduto, amato, ed attaccato alle pareti di casa nostra o, specie in età adolescenziale, a quelle della nostra cameretta. Tecnicamente, comunque, è un supporto visivo, cartaceo, solitamente di medie o grandi dimensioni che serve, appunto, a dare visibilità, oppure a pubblicizzare qualcosa, un prodotto, una persona, un’idea,  come nei manifesti di propaganda politica che spesso, col tempo, diventato essi stessi poster  posseduti da qualcuno che di quell’idea non sa proprio niente.
Il poster è un riassunto ambiguo che piace a tutti, anche a chi non conosce l’opera o il pensiero in esso rappresentati. Il poster  è arte che ammicca, è un modo di attirare l’attenzione della massa, il poster  ti fa amare cose che non conosci. Dunque evviva il poster!! Perché se è vero che non le conosci fino in fondo è altrettanto vero che tu possa avere la voglia o che possa nascere in te la curiosità di approfondire un argomento tramite un poster.
Insomma, non bisogna essere comunisti per avere in casa un poster del Che, ne’ tanto meno aver visto Casablanca per avere in casa il poster  del film, perché in fin dei conti il poster in se, così muto, è un pezzo d’arte che può assumere qualunque significato, impegnato o leggero che sia, evocando in chi lo ammira pensieri e ricordi molto personali.
Quindi il poster è arte democratica, a buon mercato, che non va spiegata, capita, studiata, ma solo ammirata. Oppure è un atto d’amore verso qualcosa che ci piace e che vogliamo in parte possedere, ricordare, guardare e che ci ricorda chi siamo, cosa vorremmo essere, a cosa ci ispiriamo, il tutto in una sola immagine.  Geniale!

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Dunque quale modo migliore se non dei magnifici poster per pubblicizzare band emergenti durante gli anni ‘60 e ’70, epoca nella quale non c’era possibilità di veicolare immagini a basso costo via internet? Jefferson Airplane, Janis Joplin, Grateful Dead, J. Hendrix e tantissimi altri si fecero aiutare dalla “Poster Art” nata in quegli anni dal movimento Hippie Flower-Power, per pubblicizzare i loro concerti in giro per gli States.
Grazie a questi piccoli manifesti, spesso dipinti a mano, riuscivano ad accendere la fervida fantasia psichedelica dell’epoca nella mente dei giovani fans. Gli elementi iconografici dei manifesti traggono ispirazione dall’art nouveau dei primi del novecento, con grandi cornici floreali a colori contrapposti, andando a pescare dall’arte antica delle civiltà sud americane e dalla mai abbastanza “saccheggiata” arte giapponese, il tutto introdotto nel contesto psichedelico tipico di quegli anni.

Da dove parte tutto ciò? Da San Francisco, negli anni ’60 dove artisti come Wes Wilson, Stanley Mouse & Alton Kelley, Rick Griffin e Victor Moscoso realizzarono poster e copertine di album rimaste nella storia che oggi vengono collezionate per i prezzi più disparati. Infatti dello stesso poster possono esistere più “edizioni”, da quella originale, magari utilizzata proprio per pubblicizzare un concerto od un tour, a quelle successive all’evento stesso che, pur essendo copie autentiche, hanno prezzi più bassi dell’originale, oltre che diverse qualità fisiche, ad esempio un diverso tipo di carta utilizzato per la stampa.
Quindi attenzione. Prima di avventurarvi nell’acquisto di un poster d’autore, è facile essere preda di trappole seducenti dal valore commerciale molto più basso del dichiarato, non di falsi veri e propri ma di seconde o terze edizioni.
Comunque, a parte questi dettagli beceri e materialistici sul valore delle opere, tornando alla storia del poster durante i due decenni degli anni ’60 e ’70 del novecento, dobbiamo ricordare che anche in Europa il fenomeno prese enormemente piede. In Inghilterra, ad esempio, artisti del calibro di Mati Klarwein, che collaborò con Miles Davis e i Pink Floyd per la grafica delle copertine dei loro album, oppure Peter Max, Warren Dayton e John Van Hamersveld, sono l’esempio di quanto, anche nel vecchio continente, i musicisti utilizzassero come veicolo di pubblicizzazione della propria opera il poster.

E ai giorni nostri? Sono ancora in attività artisti come Mark Ryden, autore di opere Pop Surrealiste e di copertine e poster famosi come quello dell’album “Dangerous” di Michael Jackson del 1991.

E in Italia? Ottimi esempi ci vengono dati dai poster dei tour dei Pooh degli anni ’60…  e attualmente anche da quelli del figlio Dj Francesco.  Scherzo chiaramente!! Ma nemmeno troppo.

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Marco De Carolis

Io sono, ma anche tu sei, per quanto pure egli, che poi alla fine chi lo usa sto “egli” nei discorsi? Comunque, io sono Marco, ma potete chiamarmi come vi pare, la cosa importante non sono io ma che voi leggiate di arte che poi è la maggiore espressione e la più significativa del genere umano e, soprattutto, che lo facciate qui su Organiconcrete, ma come perché!?! Perché ci scrivo io no! Che poi sarei Marco. Non siete attenti però!!

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