Da un po’ di tempo, credo una decina di anni, il fenomeno della street art o arte urbana se preferite è riuscito ad attecchire anche nel nostro paese, contagiando un gran numero di menti, le quali si muovono su tutto il territorio nazionale per comunicare la propria espressività artistica attraverso lavori che vengono realizzati in occasione di festival, progetti e iniziative singole e individuali. Non è mia intenzione fare un resoconto delle opere realizzate in Italia nell’ultima decade ovviamente, ma volevo confrontarmi con voi su un argomento che mi sta molto a cuore, soprattutto perché vivendo in una realtà così grande, frammentata e fertile dal punto di vista culturale e artistico quale Roma, spesso mi sono trovata di fronte a delle scelte editoriali e redazionali in cui ci andava di mezzo non solo la mia passione per la Street art ma anche la mia coscienza critica, le quali non riescono a trascendere da alcune considerazioni sulle opposte direzioni che questa arte ha intrapreso nel territorio romano forse più che in qualsiasi altra città italiana.
Due strade contrapposte si delineano in questi ultimi anni: da una parte ci sono artisti ed associazioni che lavorano con lo scopo di fare arrivare la bellezza e la funzione dell’arte anche in quelle aree remote della città, lontane dal centro ma culturalmente fertili e dall’altra parte c’è una schiera di personaggi, galleristi e politici che a mio avviso occupano le pareti urbane rivestendole del concetto di “riqualificazione” per mascherare altri intenti di cui non voglio conoscere le trame.
In altre parole e più esplicitamente credo che fare progetti che considerano il territorio dove si va ad operare e coinvolgono gli abitanti dello stesso territorio per la realizzazione di opere d’arte come grandi dipinti sui muri di palazzi dove intorno ci sono campi e fabbriche lasciate al degrado del tempo e dell’indifferenza come sta accadendo a San Basilio con il progetto SANBA che si è concluso giusto qualche giorno fa e di cui vi abbiamo fatto vedere l’opera realizzata da Agostino Iacurci , sia diverso dalla semplice realizzazione di una serie di lavori sotto gallerie e passaggi pedonali con il semplice scopo di fare pubblicità al politico o all’istituzione che ha concesso lo spazio. Parlare di “riqualificazione” quando dietro il bel lavoro dell’artista si nasconde invece un mondo meno artistico equivale a prendere in giro l’artista stesso e chi da anni investe nell’aspetto umano dell’arte e nella sua condivisione.
Ho voluto citare il progetto SANBA perché è l’ultimo in ordine di arrivo ma potrei fare altri esempi per farvi capire quanto io sia favorevole a questi progetti di rivalutazione e riscoperta del territorio, leggeRe alla voce M.U.Ro., la bella iniziativa di Diavù al Quadraro di cui tornerò a parlare, una collettiva di artisti nazionali e internazionali che continuano a colorare i muri del Quadraro, altro quartiere romano con una forte impronta popolare e voglio ancora una volta rimarcare il mio astio nei confronti della opposta tendenza ormai diffusa a Roma nel monopolizzare artisti e spazi verso un solo punto, ovvero il mondo politico e gli interessi di chi in esso sa muoversi, perchè è necessario aprire le coscienze e saper riconoscere il valore delle azioni. Anche nell’arte, soprattutto quando si parla di arte pubblica.
Chi come me vive ormai da tempo in questa città, dove spazi da dedicare alla creatività ce ne sono a quantità illimitata, come ha avuto modo di notare persino l’artista americano Dan Witz che ho intervistato nel corso della sua mostra presso la Wunderkammern, una galleria il cui approccio all’arte urbana mi stimola, sa a quale processo mi sto riferendo, sa persino a chi è a cosa è indirizzata questa mia critica e se non faccio nomi non è per mancanza di coraggio, semplicemente non voglio concedergli altro spazio oltre a quello di cui hanno già avuto a disposizione.
Esistono modi diversi di parlare di arte, soprattutto di quella urbana. Quella a cui mi sento più vicina non è la loro.
Ai posteri l’ardua sentenza. E qualche immagine del progetto M.U.Ro.
Zelda
Mi chiamano Zelda, come la principessa dei Nintendo, come Zelda Sayre Fitzgerald, come Beautiful Zelda della Bonzo Dog Doo-Dah Band. Sono alta quanto una mela della Val di Non, sono impertinente come i miei capelli e mi nutro di street art, quella roba di cui vi parlo la domenica quando avete il cervello quadrato e parlate di rigori e schedine. Non potrete fare a meno di me.