Coitus Interruptus: Nymph()maniac


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A dicembre si alza un gran chiacchiericcio, su quello che volente o nolente si potrebbe rivelare essere il film imperdibile del 2013. Almeno per quelli che amano il cinema d’autore. Lars von Trier ci presenta la sua ultima fatica, Nymph()maniac. Fatica sua, certo, ma un po’ anche nostra, vista la durata disumana della pellicola, 230 minuti. 230 minuti per niente facili, almeno per i deboli di stomaco come me.
Per aiutarci nella difficile digestione,  il film è uscito diviso in due volumi, che approderanno in Italia ad aprile. Come se impressionare il suo pubblico con l’incredibile lunghezza della pellicola non bastasse, Lars ci mette il carico da undici e si lancia in una doppietta.
Sul serio, due di fila? Mi era sembrato di averti detto che avevo mal di testa.

Io che guardo Nymph()maniac è una cosa che non si può sentire. Va contro il mio statuto interiore, per il quale evito di guardare cose che poi mi fanno incazzare. E questo film aveva un altissimo potenziale di incazzamento della sottoscritta. Ho quindi deciso di darci un’occhiatina, un po’ controvoglia, senza spenderci più di tante energie, senza informarmi, senza domandarmi quando uscisse questo fatidico secondo volume. Non volevo sapere niente.
Avrei solo guardato, per una volta, sicura che mai mi sarei ritrovata qui a scrivere un articolo su come, a causa della mia candida ignoranza, ho commesso un errore da novellina giurando amore eterno prima di arrivare fino in fondo.

Eccomi lì, in una bella mattinata di marzo, seduta sul divano che mi rendo sorprendentemente conto di avere un paio di ore libere. Potrei andare a fare una passeggiata, darmi quello smalto nuovo che ho comprato, leggere finalmente un libro. Ma neanche per sogno. Decido deliberatamente, prendendomi tutte le responsabilità del caso, di guardare un film su una donna e sulla sua dipendenza dal sesso.
Anzi no, lei non ne è dipendente. Essere una ninfomane è un modo d’essere, una caratteristica connaturata, che bisogna lasciar crescere indisturbata come un’erba infestante. Non è mica come mettersi un apparecchio notturno perché si digrignano i denti mentre si dorme…quella si che è una pessima abitudine a cui porre un freno.
Darla via compulsivamente è una cosa da difendere con le unghie e con i denti, a prescindere dall’ubicazione anatomica di tale aggressiva dentatura. Faccio un paio di respiri profondi per mettere a tacere quella vecchia zitella bigotta che vive dentro di me e, mettendo da parte i miei pregiudizi, decido di dare al film una chance.

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Passano i 110 minuti necessari a farti vedere tutto, ma proprio tutto tutto quello che c’è da vedere in un periodo che va dall’infanzia della protagonista alla sua maturità. E nonostante il fatto che io e il film non avessimo nulla in comune, nonostante l’imbarazzo che posso aver provato all’inizio, nonostante il mio starmene lì, tendenzialmente rigida e un po’ risentita, più i minuti passavano più il mio corpo, la mia zitella interiore e la mia mente sperimentavano un rilassante abbandono. Il film mi piaceva. Si, mi stava piacendo parecchio.

Il racconto è delicato e al tempo stesso estremo, fatto di cose davvero piccolissime, che se inserite nella breve vita di una persona sono tanto piccole quanto grandi. La mancanza di sentimento della protagonista mi colpisce. Mi commuove. Mi sembra la cosa più tremenda che possa succedere ad un essere umano, provo empatia. La sostengo quando giovane adolescente prova il piacere della caccia e della conquista. La guardo giocare, indossare maschere, cercare di capire.
Quel personaggio, che credevo di odiare a priori, lo guardo bene in faccia. E nonostante capisco che forse in questo film, guardare in faccia gli attori può risultare difficile, è proprio lì che vedi passare ogni presa di coscienza e di incoscienza, ogni vuoto.
Esco di casa, in quella bella mattinata di marzo (meno due ore spese davanti ad un film), e sono felice. Sono follemente, fottutamente innamorata.

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La storia, i personaggi, la modalità del racconto, faticano ad abbandonare i miei pensieri. Presa dagli impegni di una regolare giornata lavorativa, non riesco a pensare ad altro. Non riesco a non pensare a quella voragine che ti si apre dentro quando guardi uno di quei film dal finale aperto, in questo caso tagliato con l’accetta, che ti fa smaniare nell’attesa di vedere il capitolo conclusivo. Divento tremendamente curiosa.
Cerco di confrontarmi con chi, come me, ha visto il film. Ma, non so bene il motivo, nonostante la nostra esperienza sia stata la medesima, alcune cose non combaciano. I tempi non combaciano. Il mio, di film, è durato stranamente molto meno. Anche se, a difesa della durata più risicata, devo dire di aver apprezzato ogni secondo.
Questo è il momento preciso in cui capisco che ogni mio sentimento scaturiva da un incontro fortuito, non cercato, non voluto forse, ma che all’improvviso era stato troncato di netto. Da me poi. Scorro con il dito sul mouse e noto che proprio sotto il volume 1 è indicato il link per il volume 2.
Ho cincischiato in 110 minuti di preliminari mentre potevo avere tutto e subito. L’unica cosa che una persona sana di mente farebbe è buttarsi a capofitto nella seconda parte del film della quale, scioccamente fino a quel momento, mi ero privata. Ma la seconda volta non è mai come la prima. Le scoperte che il corpo di una giovane e bellissima ragazza compie non sono le stesse fatte da una madre di famiglia, da una donna che nel giro di pochi anni ha avuto un tracollo fisico non da poco, nonostante tutti sostengano i benefici della dieta liquida.

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Le immagini sono crude, le parole sono forti. Guardare in faccia i personaggi in questa seconda parte richiede un enorme sforzo da parte mia. Li vedo letteralmente nudi. Stanchi. Estremamente soli. E non basta un finale così così sul quale ironizzare per tirarmi su il morale. 230 minuti. Un pacco molto grande pieno di ovatta e carta di giornale.
Non è la prima volta che rimango delusa o ferita da qualcosa che vedo, probabilmente non sarà neanche l’ultima. Ma provo un senso di tradimento, sperimento una bruciante sconfitta per aver decantato frettolosamente le lodi di un film che alla fine mi ha lasciato quella sensazione di lieve disagio che ti coglie la domenica mattina, quando ti rendi conto di aver infilato la lingua nella bocca di una persona che non ti piace poi così tanto.
Tutto quello che avevo adorato del primo volume si deteriora nel secondo: la mancanza di sentimenti è un bagaglio troppo pesante e prima o poi va a finire che quello che hai sempre rivendicato ti si rivolta contro. Ma da ogni delusione d’amore è possibile imparare qualcosa, se non altro per evitare di cascarci e ricascarci ancora, anche se di solito in amore vince chi rischia.
In primo luogo, certe cose non si devono mai fare per forza, ma per piacere. Forzare la mano, o in questo caso la vista, ci indispone. E’ sempre meglio dare retta al nostro istinto, se non volevate farlo fin dal principio probabilmente avevate ottime motivazioni. Non importa se lo fanno tutti, sentitevi liberi di dire di no.
Può comunque capitare che un no diventi magicamente un si, e che voi, vittime di una sorta di sindrome di Stoccolma, vi lasciate coinvolgere annullando ogni vostra resistenza. Sappiate che questo sentimento è più che naturale e che non dovete provare vergogna a riguardo. Solo, per la sicurezza del vostro giovane cuore, cercate di conoscere il più possibile un film prima di innamorarvene.
Ma soprattutto per evitare di perdere la testa prima del tempo, e di rovinare la vostra reputazione costruita sull’infallibile capacità di vedere e aver visto tutto quello che confluisce nello streaming, è sempre bene tenere a mente le parole del poeta Malgioglio che notte tempo ci ha insegnato quanto sia importante, al di sopra di ogni ragionevole dubbio, arrivare alla fine.

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Beatrice Lombardi

Laureanda presso il CITEM di Bologna è nata 26 anni fa dal tubo catodico. Dopo anni di amore e odio con mamma Televisione e papà Cinema ha deciso di percorrere nuove strade ed è scappata con il Web.

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