Noi romani siamo un po’ così, goliardici e burloni, intrinsecamente coatti e sboroni. L’IPA è la “nostra” birra, amara “come la vita” e il calcio della capitale: da che parte si tifi – quella giusta (la mia) o dall’altra sponda – c’è poco da fare. mainagioia.
Il legame sociologico tra l’IPA e la romanità mi incuriosisce da diverso tempo. Perché se poco c’è da stupirsi sul fatto che il luppolo nella capitale vada alla grandissima, qualche considerazione meno spicciola forse la troviamo nella calamitica capacità di attrazione dello stile e l’abitante medio, bevitore di birra.
Prima di tutto, come già saprete, le IPA (e varianti) della modernità poco hanno a che fare con le tradizionali India Pale Ale nate a metà settecento come versioni (leggermente) più alcoliche e luppolate delle classiche Pale Ales, per consentirne la sopravvivenza durante i lunghi viaggi verso le colonie inglesi del tempo.
Le “nuove” IPA sono il simbolo della rinascita della birra artigianale avviata negli States una ventina di anni fa, dopo decenni di totale sterilità e predominio della birra “da industria”.
Il rinnovamento di uno stile tradizionale in chiave moderna, caratterizzandolo dall’ uso massivo degli stravaganti luppoli del territorio e dando di fatto vita ad un genere nuovo, segnò il cambio di passo di una rivoluzione che dal passato voleva allontanarsi a più non posso. E ci riuscì in pieno, allargando la visione della birra ad una “artigianalità” che era persa da tempo, sopita in silos da downtown, ingredienti scadenti e bibitoni da stadio.
In Italia il passo fu simile, anche se più recente, condividendone le stesse premesse di un trascorso brassicolo unicamente industriale.
A quella rinascita dobbiamo in parte la riconsiderazione del prodotto “birra”, in pieno atto ai nostri giorni e con margini di direzione ancora amplissimi.
Dal principio Roma divenne anche la capitale dell’amata bevanda, con una forte tendenza a crescere come quella dell’IPA.
Lo stradominio del luppolo come detto non stupisce, perché in una birra provocatoria per nascita, coatta, ruffiana ed estrema il romano ritrova in fondo l’epifania della sua natura. Un rischio però già è grave. Che la standardizzazione che si combatte giorno dopo giorno, nello stesso simbolo della “rottura” trovi di fatto un nuovo, pericoloso immobilismo unitamente all’ignoranza di chi limita Birra Artigianale = IPA, chiedendo ieri alle spine una bionda chiara e oggi un’amara qualsiasi.
Del buono però c’è.
Che molti, pur nati nella moda dell’amaro, trovino da questa nuova attenzione e riconsiderazione del prodotto le più ampie vedute necessarie per scorgere il fenomeno a tutto tondo, in maniera, permettetemi, “intelligente”.
L’IPA ha dato la possibilità di una nuova lettura focalizzando l’attenzione su una realtà che molti snobbavano, ma l’opportunità va colta al meglio. Ed è per questo che non condanno la tendenza ma la amo, come il resto. Perché oggi ho la possibilità non solo di scegliere nel bicchiere espressioni diverse della stessa bevanda, ma anche i concetti e movimenti che ci sono dietro.
E se molti alla fine la moda la snobbano, e i loro motivi li hanno, non credo altro che tradizione e modernità, in questo campo, abbiano entrambe il senso e la fortuna di esistere.
Il resto non è altro che una questione opportunità, da detenere con gioia.
Di icone preferite della Roma birraia ce n’è in abbondanza, dalla classica Reale del Birrificio del Borgo alla Spaceman di Brewfist (birrificio lombardo che nel segno del Luppolo esporta la maggior parte della propria produzione nella capitale), dalla Verguenza di Menaresta alle locali Maddechè del Birrificio Free Lions, 7 Vene del Birrificio Aurelio e Olim Palus del Birrificio Pontino, passando per l’ospite sempre atteso, la Punk Ipa degli scozzesi di Brewdog.
Basta solo non diventarne schiavi.
Umberto Calabria
Umberto (JJ) Calabria - Jungle Juice Brewing, autistico della birra e ancora "homebrewer" della domenica. "Liutaio" del sabato pomeriggio se ci scappa. Laureato e lavoratore per errore il resto della settimana. Curioso come una scimmia, sempre.