Ricordo con lucidità i primi sorsi di quella birra di un color nero impenetrabile, gli aromi intensi di radice di liquerizia, caffè, cioccolato, uva passita e le note calde e tostate, interminabili al palato. E pensare che non è che impazzissi per le Stout da bambino… ed è strano che le cose cambino così repentinamente a volte da superare la comprensione che abbiamo delle stesse, sempre un po’ in affanno sugli istanti. Ma quel momento mi segnò tanto che forse diventai “grande”, e da grande decisi quasi di non bere nient’altro.
O meglio, è come se il mio cuore stabilì che era senza dubbio per loro, le Stout. Le altre potevano essere solo scappatelle.
Le Stout nascono in Inghilterra nel ‘700. O meglio, le loro progenitrici, le Porter, divennero la più comune bevanda della classe popolare Londinese – in particolare dei facchini, “porter” appunto – come originaria miscela di tre birre differenti mischiate sul momento, successivamente direttamente pre-confezionate. Era il 1722, non so in quale giorno della settimana, ma tale intuizione fu talmente azzeccata che tali birre divennero il primo prodotto brassicolo di massa, con produzioni gigantesche ed enormi fabbriche di birra che facevano a gara per chi deteneva il titolo del tino di fermentazione più grande, con cene di inaugurazione per centinaia di persone al loro interno prima della sigillatura.
Successe anche che un certo Arthur Guinness acquistò una fabbrica dublinese di birra in stato di fallimento e a partire dal 1759 la trasformò in una delle attività imprenditoriali di maggior successo nel campo, per secoli a venire. Ma in tutto ciò la più forte delle Porter cominciò ad essere chiamata “Stout”, più alcolica e tostata delle progenitrici, e la gente ne impazzì totalmente che l’ 800 fu il secolo d’oro di queste birre (e dei produttori di cui sopra), mentre le stesse Porter si avviavano mestamente sulla strada del dimenticatoio.
Ma delle Stout non si innamorò solamente il mondo anglosassone – nonché il sottoscritto e giusto un paio d’altri parecchio tempo dopo – ma niente popò di meno che Pietro il Grande, Zar di Russia. L’emerito si invaghì già delle Porter nei suo viaggi inglesi, richiedendone il trasporto alla sua corte. Se non che, come spesso accadde, date le condizioni di viaggio e il tempo occorrente all’epoca per raggiungere l’impero, la birra, quando arrivava, era una merda. Ma a questo si rimediò, come nel caso delle India Pale Ale, agendo sui conservanti naturali dell’epoca: Alcool e luppolo.
Ne venne fuori una bomba di elevato tasso alcolico, ancor più tostata e dalle complessissime note aromatiche e gustative, seguite da aggiunte di luppolo sino a quattro volte le dosi normali.
La prima e più famosa del genere fu la Stout della famiglia Thrale, della Anchor Brewery (poi acquisita dalla Barclay e successivamente dalla Courage e via andando), che segnò per le circostanze il magico avvento delle Imperial “Russian” Stout.
Le Imperial, rispetto alle sorelle più piccole, risultano fortemente caratterizzate dalle note più alcoliche e luppolate, insieme all’accento dato da una base maltata estremamente tostata, ricca di note passite e liquorose, unite spesso a frutta rossa e candita.
In bocca molto calda e avvolgente, decisamente corposa, con netti sentori di liquerizia e caffè, resinoso e balsamico, e un finale amaro e con linee di acidità marcata dai malti scuri.
Di Imperial Stout in queste pagine si è parlato molto ma si può dire ancora che allo stato attuale esistono due tendenze. La prima è come di consueto la linea tradizionale, volta a riprendere il genere originario.
Di queste la mia complice preferita è stata da sempre la Samuel Smith’s Imperial Stout (7 %), ma altro esempio notevole – decisamente più alcolico e di non così facile beva – è la Brooklyn Black Chocolate Stout (10,5 %).
La seconda tendenza è legata, come di consueto, a quella più moderna nata dalla reinassance della birra artigianale avviata una ventina di anni fa negli Stati Uniti e divulgata su e giù per il globo, basata spesso sull’estremizzazione, la riconvenzione sotto nuova luce degli stili tradizionali e, in molti casi, una spaccatura con gli stessi.
Queste tendenze “moderne” si sono soffermate particolarmente sul genere, caratterizzandolo e portandolo al limite, spesso in concomitanza all’uso dei “nuovi” e potenti luppoli alla moda del giorno, nonché all’invecchiamento in botti di vino e distillati. Esempi tra le infinità sono la Beer Geek Brunch Weasel (10%) di Mikkeller, la Dark Lord (15 %) di Three Floyds, la Black Damnation di De Struise (13%), le Imperial Stout di Nøgne Ø (9%) e Rogue (11,6 %), la Yeti (9,5%) di The Great Divide.
Anche nel nostro paesello l’Imperial è stata da sempre molto apprezzata e in alcuni casi ottimamente prodotta. Si è parlato spesso della Verdi del Birrificio del Ducato (8,2%) e delle sue varianti – ricetta caratterizzata dall’uso del peperoncino – prima birra in assoluto tra le italiane ad ottenere una medaglia d’oro a livello internazionale, agli European Beer Star del 2008. Più recente ma altrettanto eccellente la Montinera (7,2 %) del Piccolo Birrificio Clandestino, di cui vi rimando alla lettura passata.
Che altro dirvi, tra le critiche o meno è bene che ci siano tutte e due le tendenze. Tanto se c’è volontà ci si sguazza in entrambe senza tanta dietrologia.
Umberto Calabria
Umberto (JJ) Calabria - Jungle Juice Brewing, autistico della birra e ancora "homebrewer" della domenica. "Liutaio" del sabato pomeriggio se ci scappa. Laureato e lavoratore per errore il resto della settimana. Curioso come una scimmia, sempre.