Durante queste settimane potrà capitarvi o esservi capitato di inciampare sul nuovo film dei fratelli Coen, A proposito di Davis. Anche io ci sono inciampata, anche se inciampare è un parolone, quando hai una scadenza e il tuo redattore ti dice “hai idee?” La mia risposta sarebbe no, ma no non è una risposta accettabile. Quindi mi guardo intorno e punto il dito. Scelgo Davis, me lo guardo e ve lo racconto. E raccontare questo film mi risulta difficile. Mi ritrovo in una situazione d’ imbarazzo, come quando cerchi di combinare un appuntamento al buio tra due amici e ti viene rivolta l’annosa domanda: com’è lei? Tu annaspi, temporeggi, produci suoni con la bocca e abbozzi frasi di circostanza. Nessuno potrà costringerti a dire che la tua amica è una cozza, ma non vuoi nemmeno mentire apertamente asserendo tutto il contrario. Al via quindi l’enumerazione dei lati positivi. Sono sempre stata in grado di vedere il bicchiere mezzo pieno. Attiverò la mia modalità da imbonitrice, grazie alla quale vedrete il film domani sera, stasera, subito! Non perché non potete vivere senza la fotografia instagrammata che ci ha rotto le palle, l’assenza di conflitto e risoluzione del suddetto, la scrittura un pò sciattina o un Justin Timberlake inquartato come un cinghiale. No signore, se A proposito di Davis ha un merito è quello di essere l’esempio lampante di tutto quello che non si deve fare, se si vuole ottenere qualcosa dalla vita.
Hai l’immenso culo di vivere a New York negli anni ’60 e di avere un più che discreto talento musicale. Hai talmente culo che non hai vizi stronca carriera, non ti buchi e gli acidi devono ancora fare la loro trionfale entrata in scena. Forse bevi e ogni tanto esageri, ma sei un uomo grande e grosso e puoi gestire la cosa senza lasciarti morire in una vasca da bagno a Parigi. Hai tutti i numeri che servono, ma per quanto tu ci provi resterai sconosciuto alle masse, rimarrai solo, senza fissa dimora, verrai preso a pugni nel vicolo dietro il locale dove suoni. E lo sai perché? Perché sei un povero stronzo che mette incinta ragazze a destra a manca, che perde un gatto, che ne abbandona un altro in una macchina in mezzo al nulla per la strada verso Chicago in balia di un tossicodipendente, che abbandona anche il tossicodipendente nonostante abbia palese bisogno di assistenza, caga nel piatto in cui mangia, non approfitta della possibilità di fare ammenda, si scopa la fidanzata del suo migliore amico e cogliona gli anziani. Credevi che tutto questo non venisse notato dalla giustizia divina? E’ stato notato, eccome se è stato notato. La tua totale incapacità di badare a te stesso ti impedisce non solo di fallire come musicista ma anche di avere un lavoro normale, te ne torni con i cocci dei tuoi sogni infranti nella piccola Coffehouse dove suoni, con quella faccia da emorroico, le tue canzoni depresse. Il pubblico ti applaude, perché dai, alla fine sei bravo, ti alzi dallo sgabello e al tuo posto si siede un giovane Bob Dylan. Il karma quando colpisce, colpisce duro.
Nonostante il titolo del film, Davis alla fine centra molto poco. La vera protagonista della pellicola è a tutti gli effetti la musica, si lo so, frase banale. Ma da qualsiasi lato si osservi la cosa, questa mia affermazione sembra dannatamente corretta. La colonna sonora folk è davvero strappamutande, ti fa quasi pensare che nonostante le tue abitudini da consumatore musicale, il folk sia il genere fatto apposta per te.
Forse apparentemente meno sofisticato del jazz che in quegli anni stava perdendo la sua presa sul pubblico intellettuale, si porta dietro l’enorme bagaglio della tradizione popolare rurale e l’onore e onere della trasmissione di tale bagaglio, della quale una giovane generazione di appassionati si è fatta carico. Il film dei fratelli Coen prende le mosse dal memoriale di Dave Van Ronk, musicista folk dei primi anni ’60 effettivamente oscurato dalla sfolgorate ascesa del più fortunato Bob Dylan e che visse negli anni in cui il folk veniva suonato da musicisti appassionati del genere nei parchi pubblici di New York, per il semplice piacere di ritrovarsi e mescolare tradizioni dalle provenienze più disparate, senza alcuna pretesa commerciale. Nonostante la pellicola non faccia direttamente riferimento al libro in questione se non per alcuni episodi, saccheggia lo spirito di un tempo perduto che ha visto i primi bagliori della rivoluzione giovanile, combattuta soprattutto sul campo dell’espressione personale e del rifiuto del conformismo degli anni ’50.
Una lotta il cui risultato doveva essere esclusivamente interiore, basata su una musica suonata con semplicità, lontana dal desiderio di fare tendenza o avere successo. E a tal proposito la scritta incisa sulla parete di un bagno pubblico sulla quale si sofferma lo sguardo di Davis e il nostro, attraverso la macchina da presa, risulta essere significativa. “What are you doing?” Suona e basta, Davis.
Beatrice Lombardi
Laureanda presso il CITEM di Bologna è nata 26 anni fa dal tubo catodico. Dopo anni di amore e odio con mamma Televisione e papà Cinema ha deciso di percorrere nuove strade ed è scappata con il Web.