Questa settimana abbiamo il piacere di intervistare Fabrizio Intonti. Presente alla Mostra Polifemo Confini11 presso la Fabbrica del Vapore di Milano, in passato è stato finalista al Sony World Photo Awards. Scopriremo le serie “Presences” e “Metanimalia”.
Dopo i fotografi delle scorse settimane, Carmen Mitrotta e Alessandro Cirillo, si conclude la nostra ricerca del mese con la Rassegna Confini, principale appuntamento annuale per presentare nuovi artisti fra quanti propongono un modo alternativo di immaginare e utilizzare la fotografia.
Ciao Fabrizio ci racconti chi sei e dove vivi?
Ciao Deianira, vivo a Roma, la mia città natale. Ho studiato filosofia in Italia e in Francia. Prima di arrivare alla fotografia ho lavorato per una decina di anni nella divulgazione culturale. Mi sono sempre interessato alla arti visive, ho lavorato con video e pittura, ma mai con la fotografia, interesse scoperto circa 7 anni fa. Credo di aver sempre provato una sensazione di sottile repulsione verso quella che potrei definire la retorica fotografica, sia nell’oggetto che nel mito del fotografo.
Il mio approccio alla fotografia ha avuto inizio quasi per caso provando a scattare come un adolescente con il telefonino. All’epoca producevano immagini da 1 mb. Furono proprio quelle a spingermi all’acquisto di una compatta con il display reclinabile.
La mia prima foto in età adulta è stata realizzata in macchina mentre mi trovavo fermo al semaforo in mezzo al traffico. Anagraficamente appartengo all’era analogica, ma di fatto ho iniziato a scattare con il digitale. Ho compiuto quindi un percorso a ritroso studiando per due anni fotografia analogica. Più tardi ho continuato in autonomia applicandomi in entrambe le tecniche e studiando foto editing, sempre a Roma. Ora lavoro a progetti fotografici personali e come fotografo ritrattista.
I tuoi lavori erano presenti alla Mostra Polifemo Confini11, presso la Fabbrica del Vapore di Milano. Ci racconti questa esperienza?
La mia partecipazione a Confini11 ricorda molto le mie prime esperienze nel campo della fotografia.
Ho sempre colto l’occasione di partecipare a concorsi fotografici promossi sul web. Alcuni anni fa trovai il bando di selezione per il Turin Photo Festival sul sito Photographers.it. Selezionai alcuni scatti di “Incroci metropolitani”, uno dei miei primi progetti, e li inviai. Furono selezionati per l’evento torinese offrendomi una buona visibilità. Questo mi diede anche la spinta per continuare con la fotografia.
Confini11, invece, premia progetti fotografici basati sulla contaminazione con altri linguaggi, un tema al quale sono particolarmente interessato e, anche in questa occasione, ho partecipato a un bando. Tra gli espositori sono stati selezionati 6 autori che potranno partecipare a una mostra itinerante ospitata da diverse gallerie e spazi espositivi con sede in varie città italiane come Roma, Milano, Genova e Torino. Non conoscevo la Fabbrica del Vapore. Conoscevo Polifemo, lo spazio espositivo che si trova al suo interno. Grazie a questa esperienza ho avuto la possibilità di tenere un workshop sui lavori esposti, un’ottima occasione per approfondire le mie pratiche fotografiche.
Hai vinto il premio Confini11 con la serie “Metanimalia”. Hai lavorato con qualche strumento di post produzione?
“Metanimalia” è il tentativo di condensare in un’immagine la fotografia intesa come oggetto, come elemento concreto, carta, stampa e rappresentazione. Mi è stata suggerita da una banale esperienza.
Nella mia vecchia casa di campagna trovai dei vecchi libri pieni d’insetti. Uno di questi aveva una vecchia foto incastrata con un insetto posato sopra. La sovrapposizione mi ha colpito perché gli animali davano un diverso significato all’immagine soggiacente. Qualche tempo dopo ho avuto la possibilità di fotografare dei diorami di animali selvaggi a grandezza naturale. Ho fatto molti scatti e ripensandoci non mi sembravano fotografie particolarmente interessanti. Era palese l’artificiosità data dal diorama. Ho provato a lavorarle in post produzione, con Photoshop, riproducendo lo stile delle stampe dei trattati naturalistici ottocenteschi. Le ho ingiallite e connotate come delle cartoline in bianco e nero trovate dall’antiquario. In seguito ho scattato diverse foto macro a insetti e altri piccoli animali di campagna. Dalle fotografie si aveva l’impressione di camminare sopra delle vecchie cartoline di animali selvaggi, fotografati nel loro habitat naturale. E’ presente una relazione inconsapevole, ironica e irriverente, tipica del piccolo che infastidisce il grande.
Possiamo approfondire anche la serie “Presences”?
La serie “Presences“, è nata da una singola foto, quella di un signore anziano che si trovava sul mio stesso treno, seduto poco lontano da me. Eravamo in una carrozza semivuota, una domenica pomeriggio. Discuteva animatamente al telefono e dopo aver chiuso la telefonata si mise la mano sulla fronte, come per raccogliere i pensieri. In quel momento ho scattato questa foto, la classica foto benedetta in cui tutto viene come deve venire. Riguardandola mi è sembrato che in quella posa potesse esserci qualcosa di universale. Il titolo della serie dovrebbe essere “Presenti”, per fare riferimento a persone presenti a se stesse, raccolte. E’ straordinario osservare una persona presa da se stessa, ferma senza fare niente, sognante o presa dalla lista della spesa. Non a caso ho scelto di fotografare tutte persone sedute.
Colori, soggetti e luci possono influenzarti nel risultato finale?
Per me tutto si gioca nello sforzo di adeguamento di forma e contenuto. A volte i progetti sono pensati prima altre volte no. Anche la serie “Sottosopra” per esempio è nata per caso, mentre scansionavo dei negativi di medio formato. In un paio di casi lo scanner non ha funzionato bene e ha acquisito mezzo fotogramma di un negativo e mezzo di un altro.
Oggi la tecnologia rende “tutti un po’ fotografi”, pensi che questo richieda uno sforzo in più per distinguersi oppure non è necessario ragionare in questo senso? Se invece parlassimo di stile fotografico?
Nel mio caso posso affermare di sentirmi tutt’ora un esploratore. Non sento di avere uno stile con cui identificarmi o a cui essere fedele. Se guardo i progetti a cui mi sono dedicato non saprei individuare gli elementi che li accomunano.
Tutti i grandi fotografi, e artisti, godono di riconoscibilità. E’ consigliabile non puntare tutto su quella, per non rischiare, soprattutto all’inizio, di restare bloccati in uno schema. In generale preferirei realizzare e vedere scatti meno perfetti, più grezzi.
Ragionando sul “tutti un pò fotografi” non mi schiero contro l’evoluzione delle pratiche fotografiche.
Oggi è sufficiente un click e un filtro Instagram per rendere gradevole qualsiasi immagine. Si dirà che sono automatismi che omologano il gusto e danno l’illusione di essere tutti fotografi. Si tratta di un’illusione, come tutte le illusioni, svanirà. L’originalità sarà sempre un elemento distintivo.
Leggevo la biografia di Tina Modotti, donna straordinaria, nata alla fine dell’Ottocento, prima modella e in seguito fotografa. Una vita da film, tra arte e impegno politico. Tina Modotti lavorava con apparecchi monolastra, essi avevano un solo scatto a disposizione. Afferma di non riconoscersi nelle nuove macchine fotografiche, le Reflex 35 mm con il rullino. Il motivo è che permettono di fare tanti scatti e dunque di sbagliare. Tale considerazione prevale anche tra i fotografi che prendono le distanze dalla fotografia digitale, giudicandola superficiale e compulsiva, perché non fa pensare prima di scattare.
Un tempo si aveva a disposizione un solo scatto per tirar fuori una buona fotografia. Non erano ammessi tentativi, si doveva padroneggiare tutto perfettamente, la scena e la macchina. Emerge quindi la differenza con le reflex con i rullini, troppo facile fare i fotografi con decine di scatti a disposizione.
I fotografi che usavano il banco ottico erano più “fotografi” di quelli venuti dopo? Se ci pensi, in fondo, il problema si presentò ancora prima, quando la fotografia irruppe minacciando il secolare dominio della pittura nell’arte della rappresentazione e i pittori presero polemicamente le distanze dai fotografi. I pittori lamentavano il doversi applicare anni e anni solo per poter disegnare in modo proporzionato un corpo, delineare una figura, creare volumi, rendere bidimensionale il tridimensionale. Non accettavano il semplice click per ottenere un’immagine perfetta. Non lo consideravano talento.
Non trovi per lo meno curioso che oggi i fotografi muovano la stessa accusa ricevuta un tempo dai pittori? Penso che sarebbe molto più utile capire come stia cambiando il linguaggio fotografico. Individuare ciò che offre il digitale e provare a prendere nuove direzioni. Considero importante la visione, e la capacità di esprimerla attraverso una forma, quale che sia la complessità dello strumento utilizzato, sia un telefonino o un banco ottico.
Fabrizio, ti ringrazio per l’intervista, immagino che tu possa darci buoni consigli su qualche libro da leggere e qualche film con una fotografia che vale la pena scoprire.
Posso consigliare il libro Man Ray, Autoritratto, edizioni SE, invece film “Cura la tua destra” di Jean-Luc Godard.
Ringraziamo Fabrizio per l’intervista di oggi, vi invitiamo a visitare il suo sito www.fabriziointonti.com
Pagina Facebook Studio fotografico
Deianira Vitali
Da quando vivo a Roma, penso al cibo per buona parte della giornata. Abbandonati i cocktail serali, ho scoperto l'amore per lo Jagermeister. Il lavoro è solo una pausa tra le mie instancabili ricerche: arte, fotografia e grafica. E quando il sonno tarda ad arrivare, c'è sempre tempo per disegnare.