Questa settimana ho il piacere di presentare Alessandro Cirillo.
Più che un’intervista la definirei una lezione di fotografia. Esattamente quello che volevamo ottenere, avendo la fortuna di scoprire un fotografo, professionista e docente. Racconteremo alcuni lavori come “Landscapes“, “Brasiliana“ e “Genos“, e la sua esperienza a San Pietroburgo, presso il Manege Central Exhibition Hall.
Ciao Alessandro, sono passati diversi anni dal tuo approccio alla fotografia, ci descrivi il tuo percorso?
Ciao Deianira, una delle cose che trovo più interessanti, è capire cosa sentono e vedono le persone quando osservano le mie fotografie. I più dotti lo chiamerebbero punctum, quello che punge. In realtà sono sempre stato attratto dalle immagini e fin da piccolo ero uno di quelli che preferiva guardare le figure. Finite le scuole superiori ho scoperto il piacere di leggere, essendo libero di farlo tracciando un mio percorso. Oggi leggo tanto e continuo a guardare le figure.
Il mio interesse per la fotografia è dovuto alla sua immediatezza e alla capacità di relazionarsi alla realtà, senza la quale non esisterebbe alcuna foto. Il mondo duplicato e diventato immagine. Più tardi mi sono dedicato allo sguardo lento, sia in fase di scatto che di lettura.
Ora fotografo meno rispetto a quando ho iniziato, circa venticinque anni fa. Allora divoravo letteralmente le fotografie e le sognavo di notte. Ho imparato molto dalle riviste, dai libri d’autore, e dagli autori in persona grazie a numerosi workshop che selezionavo con cura.
Ricordo ancora le emozioni di quando ho conosciuto Claude Norì, Gabriele Basilico, Elliot Erwitt, Martin Parr, Mario Giacomelli, Mario Cresci, Guido Guidi. Ascoltavo ogni parola, cercando di capire le loro idee e i loro approcci, più che le loro tecniche. Il b/n allora, tra la fine degli anni ’80 e la metà dei ’90, era ancora imperante e imparai presto a sviluppare e stampare le mie foto. Un giorno capii di essere un fotografo, e lo dissi ai miei. Abbandonai la facoltà di Ingegneria a metà degli studi. I miei accolsero la notizia come si può bene immaginare ma compresero pian piano che era quella la cosa che avrei proseguito a fare da grande. Era emozionante pensarmi come fotografo, sicché quella divenne la mia professione, cioè il mio modo di stare al mondo e di cercare di campare.
La passione per l’insegnamento è stata una sorta di dono naturale, mi è sempre piaciuto cercare di spiegare bene le cose. Per pagarmi gli studi universitari ho dato lezioni private di matematica fin dai diciotto anni. Poi, qualche anno più tardi, ho iniziato ad insegnare fotografia e, da allora, non ho più smesso.
Vorrei approfittare di questa occasione per farti domande più tecniche, per rendere felici i tecnicisti della fotografia. A volte sono più sentimentale, altre più concreta. Ti andrebbe di spiegarci i diversi passaggi affrontati negli anni nella scelta della macchina fotografica a te più congeniale?
Per quanto concerne la tecnica, in realtà l’ho sempre considerata un mero strumento al servizio di un’idea. Senza un’idea non c’è tecnica che tenga, che possa salvarti. Ho sempre preferito, dovendo scegliere, immagini con un’idea interessante anche se con una tecnica ancora incerta.
Le immagini tecnicamente eccellenti ma senza un senso mi annoiano. Prendi il caso di Miroslav Tichy, come fai a non emozionarti guardando i suoi scatti? Il mio maestro è stato Robert Frank, una specie di imprinting. Quando ho visto le sue fotografie, così sporche e intense, ho capito che quella era la mia direzione.
Le macchine le ho usate per realizzare dei lavori ben selezionati. Le fotografie che mi consentirono nel 1999 di vincere il premio per il miglior portfolio durante il Festival di Savignano erano scattate con un banco ottico della Toyo molto malandato. L’idea era di fotografare la casa dei miei genitori, e loro stessi. Una scelta verso l’interno in un momento in cui l’esterno non mi dava gli stimoli che cercavo.
Ho usato quasi tutti i tipi di fotocamere, da quelle nobili a quelle giocattolo. Uso molto anche il mio smartphone. Ogni apparecchio può darti qualcosa. L’importante è non chiedergli quello che non ti può dare. Amo la pellicola ma non ne ho nostalgia. Oggi non tornerei indietro anche se è da un po’ di tempo che ho in mente di utilizzarla ancora per un certo tipo di lavori.
Per quanto concerne invece la differenza tra pellicola e digitale direi che, da un punto di vista tecnico, la prima ha un “corpo” materico che la seconda non ha. Un’immagine digitale è in realtà una stringa di numeri che diventa immagine grazie ad un algoritmo. E’ immateriale, se applicassimo un altro algoritmo allo stesso file potremmo avere un prodotto sonoro invece che visivo. Dunque il rapporto della pellicola con la realtà è senz’altro più fisico, più stretto. Sulla pellicola resta un’impronta permanente di quel contatto con il reale avvenuto grazie alla luce.
Un’altra differenza molto importante è quella processuale. Con la pellicola, che ha un costo e pone più limiti, penso ai classici rullini da trentasei pose ma anche alle lastre 4″x5″ e oltre, l’attenzione prima e durante lo scatto è tendenzialmente maggiore. Con il digitale puoi scattare centinaia di foto praticamente a costo zero con il rischio di una diminuizione drastica della concentrazione, del pensiero.
Che cosa ci puoi dire invece riguardo la fotografia a colori e in bianco e nero? Diamo come riferimenti le serie “Landscapes”, “Brasiliana” e “Genos”.
Personalmente non pongo una contrapposizione netta tra b/n e colore. Oggi il colore è il linguaggio della contemporaneità ma, in alcuni casi, il b/n resta una scelta quasi obbligata. Esiste una grande differenza tra un approccio fotografico documentaristico e uno più soggettivo, espressivo. E, come hai avuto modo di notare, li utilizzo entrambi.
Ricordo che uno degli imperativi categorici, verso la fine degli anni ’80, era la questione dello stile. Un autore doveva necessariamente averne uno proprio, formalmente riconoscibile. Oggi, anche se esistono ancora autori che per tutta la vita prediligono determinate scelte estetiche, credo che il problema sia superato. Si è più liberi. Le poetiche non passano necessariamente da un’uniformità formale, piuttosto, da un tipo di pensiero che può essere espresso in modi anche molto differenti.
Anche il cinema mi aiuta molto, con autori come Wim Wenders, ad esempio, con la loro capacità di spaziare dal b/n al colore.
Ci aiuti a capire quali sono le differenze tra una serie come “Landscapes” e “Genos“?
Nel caso di “Genos“, “Brasiliana” e “The Island” quello che ho usato è la “pelle” delle immagini, la loro rugosità, conforme alla rugosità dei contenuti, come la memoria, i ricordi di un viaggio e di persone che ho anche amato. Momenti che sento di interpretare meglio attraverso l’uso di un b/n scabro, scuro, denso.
Una parte della mia produzione è costituita da immagini che si sovrappongono, si confondono, si mescolano come succede a volte quando si ripensa a cose vissute. “Genos” è proprio una riflessione sulla frammentarietà dei nostri ricordi, alcuni limpidi e altri più confusi. Una riflessione anche sulla memoria collettiva, infatti, in quelle foto ci sono molti riferimenti simbolici.
Nella serie “Landscapes and other illusions” il mio sguardo si fa più analitico, mi pongo interrogativi sul territorio che mi circonda e su come si stia trasformando. Allora mi sembra più corretto ed efficace utilizzare un approccio più documentaristico. Questo è un lavoro più lento, ancora in corso. Tratto sempre i miei temi con il dovuto rispetto. Ci sono autori meravigliosi che ci aiutano a capire quello che sto dicendo. Le immagini della Arbus, o quelle di Petersen, dei coniugi Becher, della Goldin, della giovanissima Petra Stavast con il suo magnifico libro “Libero”.
Cosa significa per te essere un fotografo oggi?
Chi mi conosce sa che distinguo i fan della fotografia in fotografi e fotografatori. I primi usano il mezzo per esprimere delle idee, per parlare dei propri dubbi, delle proprie sconfitte, per porre nuove domande e cercare, spesso con difficoltà, delle risposte. I secondi sono invece totalmente schiacciati dal mezzo in sé e da quello che può dare in termini di pura estetica fine a se stessa – dalle inesauribili questioni relative alla macchina migliore, all’obiettivo più corretto. In sostanza, quelli che definirei i clienti dell’industria fotografica, citando Vilém Flusser.
Esiste anche un numero cospicuo di persone, forse la maggior parte, che non rientra in nessuna delle due categorie. Sono gli utilizzatori spontanei degli apparecchi fotografici, coloro che approcciano alla fotografia in modo ingenuo, nel senso più bello del termine, per ricordare momenti felici. Ho molto rispetto di questa categoria che affolla letteralmente i Social Network. Da quelle immagini si possono trarre tante riflessioni su come le immagini interagiscano oggi con la nostra vita, sul concetto mutato di privacy ad esempio.
Il fotografo contemporaneo non può più essere un mero produttore di scatti, un talentuoso del mezzo, occorre che sia preparato sulla realtà in cui è immerso. Per questo motivo, credo sia assolutamente necessaria un’alfabetizzazione riferita alle immagini, alla storia dell’arte, alla sociologia, all’antropologia e all’economia.
Dalle mie accurate ricerche emerge che oltre ad essere docente e aver realizzato mostre nella tua città, sei stato intervisto da una televisione russa per un’esposizione a San Pietroburgo. Ci racconti questa esperienza?
Sì, ho realizzato una mostra a San Pietroburgo e un paio di interviste per alcune emittenti televisive. La mia esperienza in Russia è stata molto entusiasmante. Sono stato accolto con grande ospitalità e interesse. La mia mostra si è tenuta all’interno del “Manege Central Exhibition Hall“. In quell’occasione ho tenuto delle lezioni e seguito alcuni fotografi molto interessanti. Ho potuto anche apprezzare la grande organizzazione e la qualità delle persone.
Alessandro, ti ringrazio per l’intervista, immagino che tu possa darci buoni consigli su qualche film con una fotografia che vale la pena scoprire.
Di recente ho visto alcuni film che mi hanno colpito molto anche per la qualità della fotografia. Mi riferisco in particolare a “Nebraska” di Alexander Payne e a “Inside Llewyn Davis” [ tit. it. “A proposito di Davis”] dei fratelli Coen. E tra i film del passato, tralasciando quelli che di sicuro sono già molto noti, ricordo “The reflecting skin” [tit.it. “Riflessi sulla pelle”] di Philip Ridley, un film in bianco e nero ma con il giallo e il blu.
Ringraziamo Alessandro per questa intervista, vi invitiamo a visitare il suo sito www.alessandrocirillo.com.
Deianira Vitali
Da quando vivo a Roma, penso al cibo per buona parte della giornata. Abbandonati i cocktail serali, ho scoperto l'amore per lo Jagermeister. Il lavoro è solo una pausa tra le mie instancabili ricerche: arte, fotografia e grafica. E quando il sonno tarda ad arrivare, c'è sempre tempo per disegnare.