Piove, governo ladro – già, pare che “esista” ancora. Il recente aumento dell’accisa previsto per alcuni prodotti alcolici, birra artigianale compresa, porterà nel 2015 mediamente a 45 centesimi per 1 euro di birra il peso fiscale su questa bevanda, evidentemente troppo golosa per il fisco da accontentarsi di tracannarne “solamente” 37 centesimi sino ad oggi. Senza contare che non sono previste differenze nel calcolo delle imposte tra micro birrifici e colossi multinazionali industriali. Ah, e il vino pagherà a questo giro? OVVIO che no, ZERO accise e via di lusso in punta di piedi a fare cassa.
Per fortuna nel gruppo sfigato di cui sopra sono ricompresi quei cosiddetti “vini d’orzo” che invece… niente, falso allarme, sono sempre “birra”. E figurati se c’è giustizia almeno per i Barley wine.
I cosiddetti “vini d’orzo” nascono in Inghilterra alla fine del XVIII secolo, ad indicare con il termine le birre più alcoliche e complesse prodotte in ciascun birrificio, invecchiate in botti per un periodo variabile sino ai due anni. L’uso moderno dell’espressione – già variamente utilizzata nei secoli passati dal mondo Greco e Latino – era volto a rendere competitivo nel mercato anglosassone del vino un tipo particolare di birra, dalle note organolettiche così intense e raffinate da accostarsi per caratteristiche intrinseche al sangue di bacco, destinato ad evolversi con sfaccettature e note eterogenee nel corso dei decenni, pur con le peculiarità di un prodotto “da meditazione”, da assaporare in poltrona con aristocratica nonchalance.
La N°1 Barley Wine della Bass Brewery fu la prima birra ad essere così ufficialmente denominata, intorno al 1870, e venduta in una caratteristica bottiglietta di 18 cl.
Ma l’icona de genere divenne senza dubbio la Thomas Hardy’s Ale, prodotta per la prima volta nel 1968 da Eldridge Pop Brewery, per celebrare i quarant’anni della morte dello scrittore, tanto innamorato di una Strong Ale locale da definirla “del più bel colore che un artista avrebbe potuto desiderare, luminosa come un tramonto autunnale”. La Thomas Hardy’s, prodotta una sola volta l’anno ed in quantità fortemente limitata, doveva essere una birra eccezionale, di straordinaria intensità e il corpo imponente, capace di maturare ed evolversi perfettamente nel tempo (fino a 25 anni secondo la Eldridge Pop). Nonostante la fama, il birrificio fu costretto a cessarne la produzione per la prima volta nel 1999, mentre dal 2003 al 2009 fu prodotta secondo la ricetta originale dalla birreria O’Hanlon. Le speranze di provarla pare però non siano morte del tutto; circa un anno fa infatti la Brew Invest, holding birraia nata pochi anni fa, ne ha annunciato la nuova messa in commercio secondo le caratteristiche originarie.
Nel 1976 la Anchor Brewing Company introdusse il genere negli States con la Old Foghorn Barleywine Style Ale, diventata la capostipite di numerose interpretazioni eccellenti nel nuovo continente.
A differenza dei Barley Wine tradizionali, i parenti americani si sono evoluti insieme all’uso marcato dei luppoli da amaro ed aroma, generando birre ancora più d’impatto per grado alcolico e struttura.
Ed in Italia? Manco a dirlo il gusto per la raffinatezza che ci contraddistingue – almeno in termini culinari – ha seminato nel tempo una serie di prodotti boutique, di altissimo livello qualitativo e straordinaria creatività.
In principio fu lo Xyauyù (13,5%) del Birrificio Baladin a diventare l’emblema del genere nel nostro paese.
Le caratteristiche note caramellate, di frutta secca e sotto spirito, tabacco e le intrinseche sfumature vinose e marsalate donate dalla continua ossidazione in botte lo rendono un prodotto davvero eccellente, ancora una spanna sopra, a mio parere, ad altre due più recenti e ricercate creazioni delle casa: Terre (12%) e Lune (11,5%), affinate in botti di vino rosso la prima e bianco la seconda.
L’altro storico produttore nostrano, Birra del Borgo, ha invece dato vita alla Sedicigradi (16%), gioiello di color marrone intenso con armoniosi aromi legnosi, di uva passa e sherry, tanto morbido e avvolgente in bocca da coprire in maniera eccellente la elevata componente alcolica.
Altro capolavoro provato di recente, direttamente dal birrificio italiano più premiato a livello internazionale, è L’ultima Luna (13%) del Birrificio del Ducato, concepito in occasione della nascita del primogenito del birraio Giovanni Campari. La lunga maturazione (18 mesi) in barrique di rovere francese precedentemente usate per l’amarone della Valpolicella, riempite solo per due terzi in modo da favorirne il contatto con l’ossigeno, sviluppano una straordinaria varietà di aromi che si spingolo dal ribes al sottobosco, dai residui vinosi e legnosi a cuoio e mandorla tostata. Un’altra bevuta recente è stata la Noa (10%) di Almond 22, provata sottobanco in una inedita versione in botti di Calvados, con le note del distillato di sidro a colorarlo in maniera evidente ma estremamente armonica.
Insomma, la via dell’affinamento in qualsiasi tipo di legno già usato per altri impieghi può regalare davvero esperimenti ed emozioni uniche, che nella tendenza attuale stanno portando i birrai di tutto il mondo alle sperimentazioni più vertiginose. Poi volete mettere il “tempo” che prende, dà e ricostruisce incessantemente. Il tempo. Quale più fantastica romanticheria.
“Le temps ne respecte pas ce qui se fait sans lui” (Brasserie Cantillon)
Umberto Calabria
Umberto (JJ) Calabria - Jungle Juice Brewing, autistico della birra e ancora "homebrewer" della domenica. "Liutaio" del sabato pomeriggio se ci scappa. Laureato e lavoratore per errore il resto della settimana. Curioso come una scimmia, sempre.