Le geometrie di Bachis


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Uno psicologo. Uno psicologo italiano. Uno psicologo italiano a Berlino. Uno psicologo italiano (Sardo) a Berlino.Uno psicologo artista italiano (sardo) a Berlino.
Bachisio Scanu.
Io lo so, ne sono certo, che ogni volta che vi nominano il cognome Scanu, voi pensate a quello SCANU (quello sbagliato), ma stavolta miei cari lettori, potete dire finalmente addio allo stereotipo dell’amico di amici degli amici di Maria, potete finalmente scrivere anche voi il cognome Scanu e vantarvi con i compagni di merenda, di conoscere uno Scanu bravo. Bravo veramente.
Bachisio Scanu si fa chiamare Bachis ed è uno che gioca (si fa per dire) con linee e forme in un modo che sembrerebbe più familiare ad un architetto che ad uno psicologo.
In realtà poi, la psicologia vera la troviamo nelle sue opere, nel modo in cui interagiscono con chi guarda, scavando nell’inconscio e aprendo sempre a molteplici letture. E anche un po’ nel modo in cui ha risposto alle nostre domande.
Sentite un po’ cosa ci ha raccontato. E date un’occhiata anche alla sua pagina facebook. Ne vale davvero la pena.

Ciao Bachis, qui è un malato delle geometrie che ti parla. Mi ricevi? Ti presenti con 5 parole (contate) ai nostri lettori?
Ciao a te! Ti ricevo eccome. Presentarmi con 5 parole? Ci provo, vediamo: curioso, psicologo, artista (non nell’accezione abusata), osservatore, studioso.

Perdonami la stereotipo, ma vedendo i tuoi lavori, ti avrei dato più dell’ingegnere, o del geometra. Invece scopro che sei laureato in psicologia. Che relazione c’è (se c’è) tra ciò che hai studiato e ciò che fai?
Esiste una relazione molto forte, molto più evidente di quella che è possibile percepire -forse- nell’immediato: l’area di studi della psicologia non è un blocco granitico, ma è un poliedro dalle differenti facce. E’ una modalità di percezione e visione dei rapporti che intercorrono tra le diverse parti che coesistono all’interno di ciascuno di noi e tra ognuna di esse e ciò e chi ci sta intorno. E’ la chiave di volta che regge quel che siamo noi nel complesso e quello con cui entriamo in contatto. Di conseguenza la mia modalità espressiva, nei suoi diversi aspetti, ricerca ciò: il rapporto che coesiste tra le parti che formano la mia storia personale e il mio Sè e l’ambiente, in senso lato, in cui agisco e vivo. Perché tutto questo non è altro che un reticolato di interazioni, di linee, di prospettive e intrecci di esse: una visione geometrica della composizione stessa di tutto quel che è possibile vedere a occhio nudo o con la psiche.

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I tuoi lavori mi fanno molto pensare al cubismo e le tue immagini assumono un’aurea mistica ed onirica, in un marasma di parole non dette e libere interpretazioni.
Quanto contano per te le parole non dette? E quanto misticismo c’è nelle tue immagini?
“Le parole non dette”…mi piace quest’espressione. La comunicazione, di qualsiasi tipo essa sia, nasconde dei significati e delle parole non dette, celate, interpretabili: è la magia dell’essere tutti così condivisibili ma allo stesso tempo differenti. Diversi per nascita, crescita, costituzione…ognuno possiede la propria storia e i propri tratti distintivi. Io ho in me tutto ciò, ed è meraviglioso che ogni individuo che vede le mie opere pensi, senta, interpreti in base a ciò che è: è la potenza comunicativa, è l’Arte. E il misticismo, in questo contesto, è ben presente: inteso come bisogno, desiderio e obbiettivo espressivo di ricerca di tutto quel che non è razionalizzabile e direttamente accessibile. Perché in un’epoca come la nostra, nella quale ognuno si reputa capace di dare spiegazione a qualunque fatto, si è persa quella capacità di riconoscere il proprio limite di fronte all’inspiegabile, al non razionalmente commendabile. Al limite, di cui facciamo parte, e a ciò che è illimitato, che è magia e mistero. Amo pensare a questo.

Trovo incredibile il modo in cui nelle tue immagini conviva la rigidità concettuale delle forme geometriche, con quella morbida evocata da oggetti come il cuore o le persone stesse, donando, nonostante tutto, un’armonia naturale a tutti i tuoi lavori.
E’ un contrasto che vive anche dentro di te, questo?
Assolutamente si. Ma in realtà tutti noi siamo delle entità composte da parti, anche contrapposte, da facce diverse: è un modo di vedere le cose che l’uomo ha saputo realizzare come costituente di se stesso, a partire dalle antiche civiltà per arrivare sino a menti imponenti come quella di Carl G. Jung. Ma in questo periodo storico, pare sia troppo oneroso pensare in questo modo: serve impegno per leggersi come esseri complessi e cercar di trovare un compromesso, perché questo richiederebbe anche il considerare coloro che son diversi da noi, gli altri, e trovare un punto medio di contatto con loro. Si è troppo individualisti e superbi per riuscire ad ammettere che non siamo parallelepipedi di marmo. Che siamo strutture più complesse, dei tetraedri.

C’è un elemento che insieme ad altri ricorre spesso nei tuoi lavori e cattura la mia attenzione. Si tratta dell’amo da pesca (o del gancio). Ti va di spiegarcene il significato?
E’ quello che potrebbe essere inteso come “vita”, come l’esistenza. Siamo tutti appesi a ciò che siamo e facciamo: dei fili che seguono i nostri movimenti e le nostre decisioni. Dei ganci che ci penetrano dando dolore o meno. Siamo ciò che vogliamo essere e fare, ma anche qualcosa di più: delle variabili indipendenti, che stanno all’interno di un sistema interazionale molto più vasto e complessivo di quel che possiamo vedere attorno a noi. Ganci e fili sono quindi dei contatti con ciò di cui facciamo parte ma che sovrasta e di cui siamo allo stesso tempo dipendenti e partecipanti.

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Su facebook, mi accennavi a nuove collaborazioni con i fotografi.
In che modo pensi di interagire con loro, come pensi di creare un mood che sia concorde sia con te che con l’idea del fotografo?
Amo le immagini, la visione che l’occhio fisicamente e psico-emozionalmente del fotografo imprime in uno scatto: io chiedo a fotografi, anche importanti, di concedermi la possibilità di poter utilizzare una loro opera già esistente o di decidere insieme un tema, per poi loro scattare la foto e in seguito sulla quale lavorarci su. Darmi la possibilità di poter donare la mia visione della loro visione di ciò che viene fotografato: amo l’idea di collaborazioni tra menti diverse ma “accese”, lo trovo affascinante e interessante. E’ un’interazione quasi pura, perché priva di motivazioni nascoste come l’avere altri fini: un collegamento tra fatti psicologici ed emotivi, oltre che estetici.

A proposito di fotografia, guardando tutto il tuo portfolio, si nota un netto cambiamento in merito allo stile. Sei passato dall’illustrazione/pittura, a una grafica molto più essenziale applicata su fotografie.
Da cosa deriva questa sferzata piuttosto netta?
E’ coincisa con qualche periodo particolare della tua vita?
Devo dire che ho cercato anche io una spiegazione, e credo che quest’esplosione è coincisa con l’arrivo a Berlino. Sai, ci sono sensazioni e cambiamenti che lavorano dentro fuori dal controllo razionale, e che segnano e cambiano silenziosamente: immagini e percezioni che vengono assorbite e poi vengono fuori sotto varie forme e modalità. Questo tendere verso la prospettiva, l’essenziale, il lineare, l’ordinato che tanto si può vedere nel nord Europa (anche esagerando talvolta), ha sicuramente dato una spinta a parti di me che erano già ben presenti, ma inserite in una cornice più meridionale, più complessa e ricca. E ti dirò anche che da poco ho visitato un museo meraviglioso qua a Berlino, con opere dei surrealisti tedeschi: ho riconosciuto per la prima volta quanto sia vero che più si matura e si cerca di comprendere la complessità che siamo e in cui siamo, più si tende alla ricerca dell’essenza, di ciò che è diretto, alla chiave di volta. E’ una cosa molto difficile da accettare e esercitare. Ma è quel che chiamiamo crescere e, sinceramente, ben venga.

Sai che mi viene da pensare a te, come a Neo di Matrix, che vede la realtà piena di linee (in verità lui vedeva numeri, ma vabbè, ci siamo capiti no? :D ) e interamente riconducibile a forme geometriche? Che poi pensandoci bene, la realtà non è altro che questo: un insieme di linee e forme.
Hai detto la cosa essenziale: tutto non è altro che linee, forme. distanze, posizioni, collegamenti, punti di incontro. L’uomo ha saputo leggere questo e l’ha chiamata Geometria, ma essa è quel qualcosa che struttura sostanze, corpi, esseri animati e non, interazioni e relazioni umane e sistemiche. Persone come me hanno credo l’occhio e la percezione allenati all’osservazione di questo ovunque. Trovo questo così bello e così mistico.

Ma non tutti riescono a percepirlo in modo naturale. Credo che la maggior parte di noi conviva con questa idea senza rendersene conto.
Tu come vedi la realtà? Quanta geometria percepisci nel mondo? E la stessa che troviamo nei tuoi lavori, oppure i tuoi lavori nascono dall’esigenza di “inquadrare” un mondo che prova a sfuggire alle regole della geometria?
Credo in parte di aver per metà risposto precedentemente: hai ben detto, non tutti riescono a vederlo, ma vivono con tutto questo e lo sono loro stessi. Ne siamo parte integrante, sin dalle più piccole molecole, sin alle posizioni incerte degli elettroni. Gli studi in Psicologia, sopratutto l’approccio relazionale e la Teoria dei Sistemi, mi hanno portato a vedere la realtà come un insieme innumerevole di posizioni e parti diverse, che tendono e devono tendere all’equilibrio, opponendosi all’eccedere di una parte piuttosto che un’altra. Questo è ciò che vedo, dentro di me e fuori: ed è un modo di ragionare che richiede tanta attenzione ed energia, perché ti costringe a indossare occhiali e panni altrui, a riconsiderarti e riconsiderare tante cose. Ma credo sia essenziale per capire ed essere. Ecco, mettendosi nella condizione di osservare differentemente, più che inquadrare è nata credo l’istintiva esigenza di trovare un’ulteriore interpretazione di quello che viene visto creando un immagine: una ricerca delle linee esistenti, di quel fattore in più, mio, che non è altro che una visione tra quelle possibili. Ma che nel mio mondo mi piace indagare.


Alessandro Rossi

Alessandro Rossi, fondatore di organiconcrete e pseudo studente di Ingegneria Edile-Architettura presso "La Sapienza" di Roma. Ossessionato dai buchi temporali, dall'eta adolescenziale, dal trascorrere del tempo, dai rapporti umani e dall'arte. Irrimediabilmente fesso.

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