Sono molto contenta dell’ intervista di oggi; consiglio a tutti di sedersi comodamente e leggere senza fretta, gustandosi le parole e le fotografie di Marco una per una.
Ciao Marco. Come mi hai fatto notare appena ti ho contattato, sei il primo fotografo che non è per nulla interessato al soggetto umano che decido di intervistare. Hai precisato subito: “non credo di aver mai fotografato una persona una (né ho la tentazione di farlo)”. Eppure, entrando nel tuo sito, si trovano tre sezioni dedicate alle opere; due hanno un nome di donna (Sophie edHélène) e l’ ultima si chiama “Ecce Homo”. Spiegaci questa scelta.
Ciao Giulia,
Per me la fotografia è corpo vivo. Il senso è duplice: primo, la Fotografia – con la Effe – non è semplice immagine, ma materia, oggetto, gesto, simbolo, rito, talismano, preghiera… Solo attraverso la sua immanenza, cioè il suo concretizzarsi, essa può solleticare la nostra immaginazione o la nostra sensibilità, acquisendo quelgusto rotondo.
Le immagini che ci passano sotto il naso, attraverso il canale preferenziale del web, sono per la gran parte monche, focomeliche, eppure le diamo per buone. Siamo convinti di conoscerle benissimo, invece non sappiamo un bel nulla. Siamo invischiati in un gigantesco equivoco (che non sembra siamo intenzionati a risolvere).Sono lontane cugine delle fotografie create dagli autorie sappiamo tutti che i cugini si assomigliano fino ad un certo punto. Dove sono finite le dimensioni dell’opera?Sarà una foto formato francobollo o cartellonistico? Il titolo è quello messo dal pugno dell’autore? Com’è che se digito su Google Images una qualsiasi celebre fotografia la posso vedere nei colori più maleducati?Qual è quella vera? Potrei andare avanti fino al sonno…Ma possibile che riusciamo ad accontentarci di così poco?
La seconda ragione per cui definisco le fotografia corpo vivo è forse più importante. Le Fotografie – sempre con la Effe – sono prodotti della vita dell’autore . Sono figlie dell’autore, ovvero del mondo di cui fa parte, della sua storia. Ormai è implicito che il criterio di giudizio per assegnare il valore culturale di una fotografia sia la sua unicità. Una fotografia interessa se mostra ciò che non sappiamo, o non possiamo vedere, o che ancora non è stato fotografato. Oppure, se mette in discussione, sotto una nuova luce, la dialettica dell’arte stessa.Questa è una possibile lettura, non la sola. La Fotografia è unica perché è diretta emanazione di una persona, l’autore, altrettanto unica, ne rappresenta il timbro della voce. Oggi che la fotografia è un fatto assolutamente democratico, molte fotografie rasentano l’identità poiché si rinuncia al ruolo di autori, per essere semplici creatori d’immagini, disciplina assai poco interessante vista la maturità tecnologica dei mezzi a disposizione.
Fatta questa premessa, spero si capisca un po’ meglio l’esigenza di denominare con un nome proprio di persona i miei lavori. Ho il desiderio di rappresentare lo sguardo di un individuo, col suo carattere, la sua storia, le sue fragilità, in divenire. Ciascunaimmagine è un frammento del mondoa cui appartiene, digerito dalla sua sensibilità. Presi tutti insieme, i frammenti vorrebbero ricostruire l’identità di questi personaggi, donne o ragazze che siano. Lo spettatore potrebbe assemblare tutte queste suggestioni ed immaginarsi un volto, un età, una storia, un carattere, insomma un romanzo.Io ho ben chiaro che tipi sono queste Sophie edHélène, mi sembra di vederle e di conoscerle da una vita, di avercele per casa.
Le sezioni, Sophie edHélène, vengono man mano riempiti di nuove “evidenze” del personaggio; infatti non si tratta di progetti conclusi, ma di contenitori su cui lavoro in continuo, senza il pensiero di arrivare ad un punto definitivo. Mi piace l’idea che questi personaggi possano crescere e maturare col tempo. Come nella vita vera: altrimenti sarebbero statue, non persone.
C’è un’incantevole poesia di Nino Pedretti che dice “Non lo saprà nessuno che abbiamo vissuto…”; e che cosa sono le fotografie se non il grido che ci rivendica la nostra esistenza?
Adesso invece mi piacerebbe che mi parlassi direttamente di quello che attrae te; dei tuoi soggetti preferiti, della tua estetica ideale.
Quante domande difficili Giulia!
Il soggetto non è una cosa che mi interessa. È vero, nel mio lavoro ci sono degli elementi che ritornano:gli alberi, i ponti, certe strade. Comunque la si intenda, l’immagine fotografica si confronta sempre con un soggetto, fosse anche un muro bianco o un granello di polvere. Esiste sempre un elemento reale verso cui si punta l’obiettivo; questo è ciò che tendiamo a chiamare soggetto [in fotografia, nda] e ciò che marca la differenza nei confronti delle altre arti figurative, specie la pittura.
La discussione sulla scelta del soggetto è molto spigolosa. Se si considera la fotografia pura immagine acquisita, registrata, allora il soggetto assume un ruolo preminente ed è al centro delle attenzioni del fotografo. Ma se invecesi intende la fotografia come immagine rivelata, allora puoi fotografare quello che ti pare, persino rinunciare ad un vero e proprio soggetto.
Io non vado in giro in cerca di soggetti, cioè non ho questo tipo di preoccupazione. A dirla tutta, mi interessano molto di più gli sfondi, la densità o la temperatura dell’aria, il peso delle cose. Mi interessa cogliere un profilo simbolico che porti a galla dentro di me delle reminiscenze che credevo spente o dimenticate.
Come sai, io lavoro quasi esclusivamente nei luoghi intorno a casa mia, cioè la provincia tra Milano e Varese che non è esattamente la regione più incontaminata, “lussuosa”e sgombera per fare paesaggio.Tempo fa mi capitava di pensareche in poco tempo avrei esaurito i soggetti da fotografare (all’epoca pensavo che potesse essere, almeno in parte, anche una questione di soggetto). Ora mi viene da sorridere per quanto ero ingenuo. Ho constatato man mano che tutto cambia, noi cambiamo. Non siamo mai di fronte alla stessa situazione, anzi, la scommessa è proprio quella di rivelare ciò che fa parte della nostra terra, la nostra quotidianità, come se la vedessimo per la prima volta. È un po’ come se dovessimo togliere le cose da un gigantesco imballaggio, uno scatolone o un foglio di pluriball, per vederle veramente, disabituandoci al meccanismo della visione ordinaria. Molte persone constatano nelle mie foto una sospensione, un equilibrio, come se quei “soggetti” siano lì da sempre. Ma non è affatto così: tu devi immaginarti i mie alberi, i miei campi, avvolti da una confusione di segni totale: nessuno si accorge che sono lì, che esistono. Raramente è possibile coglierli nella loro “essenza”, ma una volta ogni due o tre anni capita.
Ecco perché il soggetto non conta, perché il soggetto vero siamo noi stessi e ciò che ci sta di fronte non è che uno specchio, l’oggetto quindi. Con un po’ di elasticità terminologica, potremmo considerare ogni fotografia un autoscatto.
Nonostante tu fotografi esclusivamente elementi non umani (senza sentimenti), trovo le tue foto molto toccanti, alcune addirittura quasi strazianti. E’ una mia interpretazione personale fuori dalle righe oppure tu stesso ci metti del sentimento?
Ti ringrazio, tu mi lusinghi. Provo a mettere a nudo ciò che sento, il fardello che mi porto appresso.
Per curiosità, nella vita di tutti i giorni, sei di indole malinconica? Quanto dai spazio alla parte irrazionale di te stesso?
Non sono un esuberante, ma nemmeno mi ritengo malinconico nella vita quotidiana. Forse lo sono stato, un tempo. Sono consapevole che nelle mie fotografie si avverte una malinconia costante che io provo a cucire insieme ad una certa bellezza. Questo per me è la cosa importante, che ci sia tenerezza nei confronti della malinconia, che la siriporti a casa anche se è un sentimento che è più facile negare o zittire. E poi anche la malinconia ha colori diversi, non è un sentimento monolitico, perciò è importante trovare un nome a tutte le possibili accezioni. Quando fotografo ho la sensazione di recuperare delle parti di me, che affiori qualcosa di antico, una specie di autocoscienza, se è questo il suo nome. È questo che mi piace. È questo che mi fa sospettare che valga la pena di fare ciò che faccio.
Non usi facebook e da ciò che ho letto sul tuo sito mi pare di capire che tu sia tendenzialmente polemico nei confronti della crescente importanza del web; lo trovo interessante. Spiegaci la tua posizione.
Adesso c’è questa roba, che sembra automatica, di essere su Facebook e se uno non c’è deve spiegare perché ha deciso di non esserci. Magari era fuori a portare il cane o fare la spesa, può essere no? C’è un curioso interesse verso posizioni minoritarie, come se in queste code squinternate si manifestasse la saggezza o la pazzia.
Io penso una cosa semplice: forse non ci rendiamo ancora pienamente conto di tutte le possibili implicazioni della multimedialità dell’immagine. Maneggiamo le immagini con disinvoltura, senza misura, e ci pare che questo sia il modo, l’unico, e invece non è mica detto.
Una volta se uno non aveva il fax gli dicevano Sei mica matto a non avere il fax?Sai quanto si va più veloci?Oggi, che desideriamo tutti un po’ di umana lentezza, se uno non haFacebook, con manifesta meraviglia, gli diciamo, da buoni consiglieri,Iscriviti subito a Facebook, sai quante persone possono vedere il tuo lavoro?
Ciò che mi domando è cui prodest? Certo, sarebbe più alto il numero di persone che potrebbe vedere il mio lavoro, ma a che prezzo? I miei supposti migliaia di follower vedranno le mie immagini e quelle di tutti gli altri. Saranno dunque in perenne competizione: è come pensare di vincere una guerra aumentando la potenza di fuoco. Scusate se il paragone è sgradevole, ma io ho questa idea in testa, che nessuno è capace di cavarmi, che un conto è riservarsi uno spazio in cui godersi una fotografia; un contro diverso è ricevere una omeopatica dose giornaliera di fotografie. Alla fine, si diluiscono. Io non voglio che la mia fotografia appaia sulla bacheca di un altro, io voglio che qualcuno se la vada a cercare perché ha il desiderio di farlo.
E se tra tot anni saremo tutti arcistufi di questa abbuffata di fotografie e, magari, ci viene voglia di scegliercele da soli le cose da vedere, cioè quelle che transitano sul nostro schermo? Se ci venisse un po’ di acidità, o di reflusso, a forza di condividere le cose pensate dagli altri? Lo so che è un’ipotesi lunare e malvagia, ma non è escluso che, per contrappasso, ci possa sbucar fuori da qualche parte il desiderio di pensare noi, per la prima volta, una cosa, di vederla affiorare e poter dire Lo vedi quello? È un pensiero tutto mio! Ti piace?
Quello che provo a dire è che mi sembra molto ingenuo che noi si possa usare impunementeil vantaggio della visibilità gratuita; perché questo è l’elemento seducente. Non ci sono le belle fotine, da una parte, e il portale preferito, dall’altra. È un po’ più complesso di così. Messaggio e canale di comunicazione sono un’unica fusione. La fotografia che non è mostrata a nessuno, di fatto, non esiste.
È un gioco che ha le sue regole. È un gioco che crea la propria estetica e ti sottopone ai propri meccanismi di valutazione. La fotografia e la sua comunicazione sono la stessa cosa e, ad esempio, varrebbe la pena di porsi il problema di come l’altro osserverà il mio lavoro una volta che lo scatolotto bianco blu ha compresso per benino la mia fotografia. E cosa ne sarà della stessa dopo uno, due, tre…trenta rilanci. E che rapporto avrà la singola fotografia col corpus di lavoro dal quale è stata disunita?
Il punto è che per quanto filosofiamo sul tema, la partita la giocano in tanti. Noi non diamo che un piccolo calcio iniziale al pallone, il quale può prendere in seguito le traiettorie più schizofreniche. Non si può risolverlo: o ti sta bene, e giochi, o non ti sta bene, e guardi.
Io ho avuto qualche anno di militanza nei social network e ne ho tratto un’esperienza insoddisfacente. È questo che mi ha spinto a tirarmi fuori: non è nulla di ideologico, né si tratta di un ragionamento universale. Riguarda il mio caso, la mia fotografia. Io guardo.
Ho comunque un sito ed un blog: mi sembra più che abbastanza.
Mi hai fatto notare che c’è un enorme divario tra il mio modo di fotografare ed il tuo; siamo agli antipodi anche per quanto riguarda la tecnica (parola per cui io provo un’ enorme antipatia e che per te forse è particolarmente interessante, avendo un’ impostazione più classica). Puoi provare a convincermi che in ogni caso non è bene esagerare con i pasticci e con l’imprecisione?
Forse anche tu a scuola avevi una professoressa di italiano che ti insegnava a scrivere un italiano educato, con la punteggiatura ordinata, il vocabolario dei sinonimi, le frasi comprensibili. Poi, una volta a casa, capitava di aprire libri meravigliosi che usavano una lingua che nessuno ti insegnava. Valevano le parolacce, il dialetto, le frasi lunghe una pagina senza virgole. La cosa più strabiliante di tutte era funzionavano, funzionavano eccome, questa roba aveva una voce limpidissima!
Allora qualcosa non tornava più. Avevo il terrore di avere difronte una con la nevrosi di plasmare il nuovo Manzoni, o Carducci, che è gente indubbiamenteispiratissima, o qualsiasi altro padre della grande Letteratura – con la Elle – italiana, ma io per scrivere come loro dovevo spegnere la mia voce da sedicenne. E mi pareva poco sensato fare finta di fare le Odi Barbare che, diciamoci la verità, uno di sedici anni ha in testa altre cose che per lui sono importanti come l’universo intero.
Un po’ la stessa cosasuccede nella fotografia: basta professor!Non voglio convincere nessuno di niente. Un po’ di libertà!
Ciascuno ha la sua strada e il suo lumicino da seguire. Lo sfoggio tecnico non è un valore in sé, come l’idea di spogliarsi di uno stile, possiamo dire preterintenzionale, in favore di un’imprecisata spontaneità. Io credo che ciascuno debba“stare nelle proprie braghe”.
Trovo sterile, per un fotografo, teorizzare sulla Fotografia in generale. Tanto le teorie vanno bene solo a chi le formula e vanno strette a tutti gli altri. Allo stesso modo, i problemi dottrinali sono tali per chi li pone e tipicamente non si prende la briga di risolverli colfare. Al massimo si può discutere sulle scelte caso per caso. La Fotografia non esiste, esistono le fotografie.
L’ultima domanda è sul bianco e nero; è questione di gusto, di praticità, di abitudine o cosa?
Credo sia una questione di voce, ancora una volta. Io non sono capace di esprimermi a colori, non vedo in quel modo e non c’è niente da fare. Non è la mia lingua. C’è gente che è un arcobaleno di colore, capace di comporre dei sonetti coi colori, io no. A me i colori danno fastidio, mi pare alimentino l’equivoco che la fotografia sia qualcosa di reale o verosimile. I colori contribuiscono a togliere ambiguità alla fotografia, cioè a farla assomigliare alla visione retinica, e io ritengo l’ambiguità fotografica il regalo più bello da scartare. Quindi, se bisogna arrivare proprio da qualche parte, la primissima cosa che occorre fare, è spogliare quello che uno ha negli occhi dai colori, buttarli via insomma, mettere a nudo ciò che ci sta dietro, o sotto, se si preferisce.
Alessandro Rossi
Alessandro Rossi, fondatore di organiconcrete e pseudo studente di Ingegneria Edile-Architettura presso "La Sapienza" di Roma. Ossessionato dai buchi temporali, dall'eta adolescenziale, dal trascorrere del tempo, dai rapporti umani e dall'arte. Irrimediabilmente fesso.