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Il mutare delle forme – “Dust” di Olivier Valsecchi


“A narrare il mutare delle forme in corpi nuovi
mi spinge l’estro.”
Ovidio, incipit de “Le Metamorfosi”

 

Come sospesi in un universo alternativo, in una dimensione indefinita dove il buio culla lo spazio, i corpi penetrano l’assenza gravitazionale.

Sono le immagini di Olivier Valsecchi, classe 1979. Nato e cresciuto a Parigi, scatta da autodidatta per dieci anni per poi diplomarsi all’ETPA di Tolosa dove vince il Gran Prix de Photographie.
Il suo ultimo lavoro “Dust”, già edito in numerose pubblicazioni internazionali (tra cui Eyemazing, Photo e Kult Mag), è ispirato alla definizione di Caos data da Ovidio nelle Metamorfosi: una massa confusa tra luce e buio, ordine e disordine, tormento e frenesia.
Si tratta di corpi umani che nascono, o ri-nascono, dalla polvere, mostrando tutto il potere dell’origine e della creazione, in una visione cosmogonica personale e umanizzata.

E’ il racconto di un risveglio dal nulla che regolarizza e allo stesso tempo definisce il caos globale.
L’uomo nasce dalla polvere e alla polvere tornerà, è il racconto dell’energia che si trasforma. La metamorfosi dell’espressione, il disordine universale che genera un frutto, l’uomo, che diventa personificazione della natura, e dell’istinto vitale.
La visione di questi corpi lascia lo spettatore in una sorta di apnea che prosegue anche nella mente, quando si immagina come continuerebbero quei movimenti immortalati in un istante, tra le polveri che aleggiano nel vuoto.

Sebbene Olivier non sia il soggetto delle proprie fotografie egli utilizza il corpo di altri modelli per comporre immagini che sono lo specchio del suo caos interiore e per questo li definisce autoritratti.
Ma ogni uomo e ogni donna di questa serie rappresenta anche un po’ l’alter ego di noi stessi, fanno quello che molti sognano di fare: togliersi il peso del passato di dosso, scrollarsi le spalle e cercare una nuova ragione di vita, coscienti di una rinascita interiore frutto della liberazione dai problemi di una quotidianità che ha bisogno di un senso nuovo, affinché ci venga restituita la luce che ci manca per brillare come dovremmo.

In una tensione classicheggiante delle forme muscolari, immortalate nell’atto della “liberazione”, queste fotografie ci lasciano sospesi in quello stesso intimo spazio che ci presentano, facendoci sognare il rumore del silenzio in un posto che non conosce “dove”, un non-spazio riempito da corpi di un colore quasi irreperibile, levigati da una luce diffusa che ci piace pensare provenga proprio da quelle creature.

 


Stefano Gizzi

A volte cerco di ricordare a quando possa risalire il primo fotogramma della mia esistenza, ma non sono mai riuscito a trovare un punto d’inizio. Perché da che ne ho memoria la fotografia ha sempre fatto parte di me.

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